I Cure hanno sempre abituato più o meno involontariamente il proprio pubblico alle sorprese. Dopo il primo pop-punk dalle venature dark di "Three Imaginary Boys" si sono trasformati in una delle più interessanti formazioni post-punk, con un’inconfondibile sonorità ipnotica e rarefatta, tanto da essere accostati ai conterranei Joy Division; e dopo il turbine infuocato dell’apocalittico e criptico "Pornography", arrivano a un punto di non ritorno con i singolini di sofisticata levità di "Japanese Whispers", e l’irriverente pastiche psichedelico-orientaleggiante di "The Top". Per "The Head On The Door" gli ammiratori di Robert Smith dovranno aspettarsi l’ennesimo scossone, e stavolta pare sia quello più forte e determinante.
I Cure in sei anni sono stati gli unici a scendere così fondo agli inferi del malessere umano riuscendo a sopravvivervi, quasi miracolosamente.

Decidono così di fare ciò che nessun gruppo ritenuto “alternativo”e allo stesso tempo adorato come loro sarebbe stato capace di fare: un’incredibile virata a mano sicura verso il pop-rock più melodico e radiofonico pur mantenendo salda la propria identità di gruppo della new wave più emozionante e riflessiva, accrescendo sì il proprio potenziale commerciale, ma soprattutto le proprie vedute musicali, la propria arte di manufatturieri pop, la propria dimestichezza con i generi più diversi. Il passo che per ogni altra band sarebbe stato interpretato come volontà di svendersi, come l‘inizio della fine, diventa per i Cure un piccolo trionfo di coraggio e forza di volontà. Volontà di uscire dal periodo depressivo che aveva legato al letto e all’ombra il leader, uno Smith che aveva sempre meno bisogno del cerone per ottenere il pallore del proprio viso/maschera, consunto da anni difficili e da uno stress sempre più pressante.

Queste dieci canzoni rappresentano l’ultima spiaggia per dimostrare di avere ancora qualcosa dentro, anzi di aver dentro un calore e un’allegria mai mostrate prima. Qui avviene lo straordinario incrocio, tra un vecchio, glorioso gruppo dark punk e un nuovo complesso di rock alternativo che non ha più pudori, ma che trova la propria forza proprio nella spontaneità del processo creativo, nel divertimento del suonare insieme, di quattro piccoli uomini che posso dare un senso alla propria vita grazie ai piaceri offerti da queste misere sette note. Tutto sembra un esperimento, un jukebox umano alimentato dai gettoni di un ingenuo bambino arrossettato di metà anni’80.

L’inizio travolgente di "In Between Days", con inedite schitarrate acustiche e tastiere non più tenebrose, ma stranamente dolci e solari, è già una dichiarazione d’intenti che qualcosa è cambiato. In seguito le tracce schizzano da un genere all’altro, passando dal flamenco di "The Blood", alla piacevolissima favola di "Six Different Ways" (che riesce incredibilmente a far incrociare Prince con adorabili echi beatlesiani), dall’epico inno da arena-rock di "Push", fino al celebre riff di basso che regge la pulsante "Screw", selvaggio pezzo danzereccio. Sicuramente la palma di pezzo più caratteristico del periodo è il capolavoro di college-rock ballabile che è "Close To Me": è "solo" una stupida love song da classifica, ma è la capsula di un decennio, è la perfezione del singolo killer da top ten, irripetibile inossidabile e inimitabile (soprattutto nella sovrapposizione di pianole spiritose e nei languidi sospiri di Robert che ritmano il pezzo), ascoltare per credere.
Non mancano comunque pezzi per i nostalgici del vecchio sound, rintracciabile in ogni caso in "Kyoto Song", nella magnifica "The Baby Screams" e soprattutto nel gioiello di "Sinking", forse il più alto risultato raggiunto da Smith nel corso delle dieci tracce, una coda piena di emozioni contrastanti, notti insonni, freddo, voglia di riscossa e di alienazione, seme nascosto del futuro, che arriverà a maturazione solo quattro anni più tardi nel monumentale "Disintegration". "The Head On The Door" resta invece l’album di transizione per eccellenza, che si preoccupa dell’ingrato compito di catalogare - con eleganza - i suoni del presente e del passato, rischiando e rischiando, di essere datato, banale, incompleto, confuso. In realtà è l’atto di forza che ha salvato la vita e la carriera musicale di Robert Smith, è la consapevolezza che mai niente ha una sola facciata o un solo colore. Non è solo la magnifica nascita della tristezza allegra, del lato più divertente e umoristico del dark: è la gioia di scoprire che essere una persona sensibile e fragile non è una condanna, ma uno splendido dono.

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