Nella generale, soporosa indifferenza di questa estate 2021 anche il mal sopportato "Wild Mood Swings" taglia il traguardo del 25° anniversario. Era la primavera del 1996 infatti quando il decimo ellepì dei Cure - in modo de facto involontario - apriva una incrinatura nella carriera del gruppo di Robert Smith riuscendo a rendere invisi anche i fans più pazienti, a provocare un tracollo nelle vendite (il predecessore "Wish" era entrato direttamente al 2° posto nelle classifiche Usa), che si riverberò nella tournèe promozionale, e che forse, in ultima analisi, fu il primum movens della chiusura, quattro anni dopo, della stessa Fiction, sussidiaria della Polydor di Chris Parry. In occasione del quarto di secolo Robert Smith ne ha curato una riedizione in picture disc 2xLp. Inducendo chi scrive e ne ha già (malamente) scritto a riscriverne aggiungendo qualche annotazione. Voci di corridoio mai smentite parlano di burrascose circostanze che almeno in parte fecero da contorno alla scrittura e alle registrazioni del disco. Prima le defezioni di Porl Thompson e del batterista Boris Williams, quindi line-up da ricostruire, i noti problemi con Lol Tolhurst, e forse - forse - una difficoltà compositiva passeggera del frontman che potè tuttavia avvalersi del recuperato tastierista Roger O'Donnel. Vengono verosimilmente composte per prime le lente ballads più classic-cure crepuscolari, o alla luce delle stelle e il titolo temporaneo del progetto è "Bare", dal titolo del lungo brano posto in chiusura. Tuttavia la sorte dell'album subisce una sterzata, compaiono brani più pop, luminosi, divertiti, il titolo cambia a questo punto in "furiosi sbalzi di umore" a ritrarre un paesaggio variegato ed emotivamente sismico. Un disco simile non può minimamente riflettere la stessa coesione ed omogeneità stilistica dell'oggettivo masterpiece "Wish" o di ciò che lo aveva preceduto: frammentario e ampiamente confuso, tuttavia "Wild Mood Swings" non può e non deve essere relegato a "peggior disco dei Cure" (ci avrebbero dato altri motivi per pentirci delle nostre spasmodiche attese). Innanzitutto il mariachi latin pop nitido e cristallino di "The 13th", è un primo gioiello a sorpresa, seguito da "Return", e gli altri 3 singoli "Gone!" (il meno riuscito), "Mint Car" (tentativo di pop sontuoso infranto a causa della sua vitrea fragilità), e soprattutto "Strange Attraction" (base saltellante, gothic-dub con missaggio di - nientemeno che - Adrian Sherwood della On-U Sound). "Want" è un monolite minaccioso e oscuro, in cui un tappeto percussivo possente si intreccia a chitarre elettriche degne di "Wish" o addirittura, (è stato fatto notare), di "Pornography". A tutt'oggi è l'unico brano suonato, ma agli shows non manca mai. "Club America" rievoca un po' "Never Enough" un po' Iggy Pop... con atmosfera da dirty boulevard, echi di Lou Reed nella voce: siamo tutt'altro che nel baratro. "This is a Lie", richiama potentemente la chansòn con tanto di quartetto d'archi, e sorprende per la sua atipicità. "Numb" è il punto di contatto più evidente con "The Top" (l'altro è "The 13th", una specie di "The Caterpillar" 12 anni dopo), fumosa e psichedelica, a tratti sembra persino una versione spoglia e fredda di "Homesick". Un disco con molti difetti, a partire da un minutaggio interminabile che lo rende paragonabile solo ad una versione ben meno eclettica del "Kiss Me" album, solo con brani più lunghi, un'opera che mostra il fianco proprio nel suo segmento classico, ovvero le varie "Treasure", "Jupiter Crash", e ballads sin troppo dejà vu. Ciononostante in trasparenza un disco che lascia trapelare una ambizione che in fondo va premiata, un mèlange non compiuto, ma non importa, un caleidoscopio insussistente rispetto a "The Top", ma anche qui momenti pregevoli ce ne sono. Un nuovo batterista, Jason Cooper, alle pelli in metà dei brani, e infine, fatto non da poco, un Robert Smith in forma vocale quantomai smagliante ed espressiva. Peccato, non è chiaro se il pubblico non sia stato all'altezza o se il disco sia oggettivamente troppo spiazzante, in ogni caso, è più apprezzabile il coraggio di voler superare il compatto e densamente chitarristico "Wish" che non lo spasmodico tentativo di mettersi in bolla con la contemporaneità. In sintesi, una strampalata ed eccentrica versione della quintessenza dei Cure.
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