"Wild Mood Swings" è l’album più disprezzato da tutti i fan dei Cure e meno considerato dalla critica.
Senz’altro è un lavoro che soffre il confronto con il resto della loro discografia ma non per questo è un disco da buttare totalmente, si tratta dell’album più leggero e pop dei Cure dai tempi di "Japanese Whispers".

Confrontato con i tanti "capolavori" brit-pop del periodo questo disco sarebbe da rivalutare immediatamente, ma sarebbe troppo facile poichè sono centinaia i gruppi che guadagnerebbero qualcosa se confrontati a Oasis, Blur, Sleeper, Supergrass, Suede e compagnia bella.

Il difetto più grande di questo disco non è il song-writing, che si mantiene quasi sempre a livelli più che dignitosi ma la produzione troppo levigata e patinata che toglie incisività a brani che potrebbero avere più impatto e rischia di rendere un po’ melensi i brani più romantici.
"Want", ad esempio, è il brano d’apertura che come succede spesso negli album dei Cure risulta essere anche uno dei più riusciti, ma è penalizzato dalla produzione troppo "orchestrale", stesso dicasi dell’altrimenti ottima "This Is A Lie", ballata sinfonica e romantica appesantita da un uso troppo massiccio di archi che la rendono un po’ troppo pomposa.
Nonostante il difetto di fondo è comunque impossibile dire che ballate come "Jupiter Crash", "Treasure" e "Bare" non siano brani riusciti.
"The 13th", quando uscì come singolo, non piacque né al grande pubblico che voleva altre "Friday I’m In Love" né tanto meno a quelli che da quattordici anni aspettavano un altro "Pornography", non è un capolavoro ma un brano simpatico e coraggioso (chi avrebbe immaginato che i Cure avrebbero suonato come una band tex-mex?) catalogabile assieme agli esperimenti pop che il gruppo del Sussex ci ha lasciato nel corso degli anni ("The Caterpillar", "Lullaby", "Close To Me").
Più convenzionale ma altrettanto riuscito il pop di "Mint Car", alri brani come "Return" e "Trap" invece sono riempitivi senza infamia né lode, mentre l’unico brano da stroncare è "Gone!", una delle canzoni più brutte della loro discografia, che presenta un arrangiamento d’organo veramente imbarazzante e un assolo di tromba inascoltabile; se ascoltate il CD programmatelo affinchè salti la traccia numero nove.
Un’ultima menzione per "Club America", il brano più rock del lotto tanto da sembrare più uno scarto di "Wish" che non parte di questo disco, non è un brano irresistibile ma mostra un Robert Smith insolitamente alle prese con toni di voce molto bassi e da un po’ di energia ad un lavoro che ha nella fiacchezza produttiva il suo principale difetto. In definitiva un disco emendabile ma non inascoltabile. Sufficienza vicina, voto 2,5.

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