Per registrare un album sono necessarie diverse cose oltre a un semplice contratto discografico e alla sfacciata fortuna di essere riusciti a firmare quel contratto con una major come la Capitol. Forse i nostri Dandies da Portland, Oregon credevano di farla franca azzeccando un por godibilissimo singolo come "Not If You Were The Last Junkie On Earth", forse speravano che quel singolo gli regalasse l'immortalità e la fama sempiterna. Peccato per loro, non è andata esattamente così.
L'ultimo album, "Odditorium Or Warlords From Mars" uscito ormai quasi due anni fa, rappresenta un imbarazzante commistione di pseudo-psichedelia, country e dance-pop sempliciotto e scipito... il penultimo, l'appena più divertente "Welcome To The Monkey House", scherzava con l'house, la disco e il funk, ottenendo se non altro qualche risultato sul fronte della pura e semplice orecchiabilità. A ben vedere, il loro lavoro più coeso risulta essere "Thirteen Stories From Urban Bohemia", uscito ormai nel lontano 2000, opera venata di forti influenze country, folk e psichedeliche che talvolta si lasciava andare a un minimalismo un po' sterile e privo di idee. Cos'hanno combinato di buono, allora, nella loro carriera, questi quattro ragazzotti dalla faccia tosta? A parte spararsi pose da gruppo alternativo neo-Velvet Underground, citare paranoicamente gli anni '60 e inseguire la moda senza mai riuscire ad acchiapparla? Nulla. Ecco tutto quello che hanno fatto.
E come potremmo giudicare, all'interno di una simile debacle, questo "The Dandy Warhols Come Down"? Un calderone incerto e scadente che ingloba senza distinzione pop, ambient, folk, psichedelia, grunge, brit pop e chi più ne ha più ne metta. A ben vedere, colui che riesce a mettersi davvero in mostra per l'intera durata di questo monotono polpettone di stili è il produttore Tony Lash, colui che si può giudicare come l'unico responsabile del marasma quasi ridicolo di tastiere e chitarre effettate che avvolge l'album. I Dandies (Courtney Taylor-Taylor alla voce, Zia McCabe alle tastiere e al basso, Eric Hedford alla batteria e Peter Holmstrom alla chitarra più il suddetto Tony Lash alle tastiere e percussioni) hanno in effetti sprofondato le canzoni in un clima da trance perenne e inestirpabile, una specie di nebbia indotta da chissà quali intrugli a base di allucinogeni, marijuana ed eroina... Certo, a loro piacerebbe un sacco fare la figura dei Greatful Dead, ovvero quella dei drogati ad oltranza che riuscivano però anche a creare dell'arte. Ragazzi, troppa presunzione... Certi scherzetti li hanno pure azzeccati.
Partono alla grande con "Be-In", un mostro di sette minuti che mescola le cadenze arroganti dell'hard rock con una melodia estraniante di chitarra e un pastiche indecifrabile di distorsioni e tastiere che conduce a un ritornello-mantra dal quale si resta quasi ipnotizzati. Non gli va neppure troppo male con "Boys Better", ovvero i Dandies rifanno gli Oasis, fatevi due conti... Il ritornello, però, è carino, orecchiabile, pieno di sfacciataggine, le chitarre a mille fanno la loro figura e l'organetto di McCabe sembra proprio al suo posto... E poi cosa abbiamo? Un country-rock psichedelico, ovviamente, cos'altro, se no? Stiamo parlando di "Minnesoter", ironica e parodistica, ma nulla di più. Da questo punto in poi l'album è in caduta libera: a un'ipnotica, surreale, metà Radiohead-metà Pink Floyd "Orange" contrappongono l'inutile mantra distorto di "I Love You"; mescolano con disinvoltura brit pop e surf e tirano fuori dal cilindro (ovvero, fanno un miracolo senza neppure sapere come) la già citata "Not If You Were...". Non contenti, i ragazzi trovano spazio per un techno-rock spensierato e ottimista come "Everyday Should Be A Holiday". Per carità, simpatica e orecchiabile, ma la canzone sembra una riproposizione di "Legs" dei ZZ Top. Rimangono "Whipping Tree" e "Pete International Airport", schizzi ambient-psichedelici a metà tra l'evocativo e il soporifero, la cupa e nirvaniana "Hard On For Jesus" e lo strumentale conclusivo, venato di dance, psichedelia e techno, di "The Creep Out", orgia strumentale che sceglie la via della durata "prog" fine a sè stessa.
Ascoltare quest'album è una vera odissea, e le sirene della noia e dell'impazienza sono sempre in agguato. Un disco francamente sconcertante nella sua dispersività e nella sua pochezza di idee sepolta abilmente in una coltre gelida e misteriosa di tastiere ed effetti chitarristici nella quale nessuno dei membri sa brillare. Inutile continuare a dar retta a questa band, tanto tutto ciò che ha pronunciato sono parole incomprensibili... e voglio proprio sentire cosa combineranno nel prossimo album. Ovviamente, sempre che la Capitol non vada ad ascoltarsi l'intera discografia della band e prenda l'unica decisione possibile a quel punto: obbligare i ragazzi a smettere di fare "musica", una volta per tutte.
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