Se pensate di aver ascoltato tutto, ma proprio tutto, nella vostra vita, se ritenete che il rock degli anni novanta dopo "spiderland" sia morto e sepolto, se credete di aver esperito tutte le forme musicali possibili e siete convinti del fatto che oramai nulla vi potrà più stupire... allora è matematico: non avete ancora inserito nel piatto del vostro lettore "Harsh 70's reality" dei Dead C, gruppo neozelandese, che nell'annus domini 1992 diede alle stampe il suo capolavoro e la sua opera definitiva, un doppio di intuizioni e sperimentazioni lisergiche straordinarie, un trionfo di cacofonia e rumorismo all' insegna dei migliori Red Crayola o Chrome, coi quali condividono senza dubbio l'inserimento di riverberi spaziali nelle loro tracce.

Già, di tracce è opportuno parlare, non di canzoni. L'obiettivo primario di tale collettivo è infatti quello di distruggere la forma canzone in ogni sua parte, creando nuove regole di dissoluzione. Prima viene il rumore, e poi, casomai, la musica! Nel senso che la musica è un fatto del tutto soggettivo: ognuno coglie la musica dove gli sembra più opportuno, non ci sono regole o schemi nell'ascolto, così i nostri pensano bene di inserire nelle loro tracce echi cosmici, dissonanze (si dice che il gruppo suonasse strumenti malandati e difettosi per aumentare il senso di cacofonia), percussioni clastrofobiche, ronzii e tanto altro di assolutamente contrastante. Basterebbe la prima traccia "Driver UFO" a far cogliere pienamente all'ascoltatore il senso della filosofia di questi avanguardisti: se c'è un componimento nella storia del rock che più si allontana dalla melodia forse è proprio questo; la suite dura ben ventidue minuti e fa di tutto per rendersi inascoltabile: essa ruota su di sè in maniera centrifuga, trasportando tutto ciò che di "cosmico", come suggerisce il titolo, possa esserci.. sonorità spaziali, claustrofobiche, scintillanti, entro cui la struttura di fondo è praticamente introvabile.

Tentare di trovare un senso a tutto questo è un'utopia: la psiche deve arrendersi di fronte all' avanzare di un simile monumento fagocitante ogni forma di musicalità. Introdotti all'ascolto di "Sky" con ancora nelle orecchie il senso di stordimento, assistiamo ad un curioso garage-rock spaziale, in cui il giro di basso è funzionale a creare disorientamento e perdita di coscienza. Nella successiva "love" ci si sposta verso sonorità dark e quasi gotiche, ma a minacciare il tutto c'è sempre il terrificante senso di claustrofobia, aumentato a dismisura dal ritmo lento e cadenzato, così come in "suffer bomb damage" si registra una sorta di perdita dei sensi, sottolineata dall'avanzare di un organo in sottofondo che avvolge ogni certezza. Con "Sea is violet" si ha la conferma che ogni elemento armonico all'interno del disco è creato esclusivamente per triturare le possibili parvenze di coerenza tra una traccia e l'altra; le vibrazioni d'onda costituiscono un muro invalicabile oltre il quale è impossibile tentare di andare con la propria immaginazione musicale. Non si ha un attimo di tregua in questo girone infernale dei dannati, in questo abisso stritola-convinzioni, "Constellation" e "Baseheart" ospitano al loro interno dei contrasti dissolutori tra chitarre: è una tensione catartica, volta a purificare gli angusti spazi rumoristici del "feedback" delle chitarre, la stessa idea alla base di "well oiled" degli Hash Jar Tempo.
Lo spettacolo si conclude con "Hope", che già dalle prime note contraddice il titolo stesso: non vi è speranza, la voce incolore in sottofondo suona profetica e oracolare; il rock è arrivato a un punto di non-ritorno, al suo apice nichilistico e al tempo stesso catartico.

Dovranno passare ancora molti anni prima che un altro viaggio nella perdizione della psiche umana venga compiuto al pari di "harsh 70's reality", intanto assistiamo impotenti alla rovina.

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