Materiale esplosivo. Tenersi alla larga sarebbe la scelta migliore. Eppure, masochisticamente, ci si addentra. Gira e rigira, ne vuoi sempre più. Quel rumore che apparentemente si contorce su se stesso, diventa qualcosa di più; penetra e corrode dall’interno. Si va oltre le dissonanze analogiche, il sintetizzatore diventa lo zenit del turbinio funebre già ampiamente disegnato dalle chitarre di Bruce Russel e Michael Morley: raggira la soglia del frastuono, addentrandosi prima in essa.

"White House" è un pachiderma che schiaccia senza ritegno ogni residuo di "sensibilità artistica". I Dead C giocano, così, ad allontanarsi, solo per il gusto di farsi riprendere. Ed ogni volta che li riprendi, ricomincia il loro sadico gioco. Il premio per gli stoici in grado di sostenere quest'attività “ludica” è contenuto tutto tra le righe dello stesso. Dopo un preventivabile smarrimento iniziale sarà facile addentrarsi nei droni di "The New Snow"; mentre le sferzanti distorsioni in loop di "Outside" non sono altro che il naturale prosieguo di una nenia figlia tanto dei Sonic Youth, quanto di un Lou Reed poeta apocalittico sul tetto della Terra - in attesa di deflagrazione - nel 2012. Superata la soglia dell’alienazione, "Your Hand" sembrerà addirittura un normalissimo pezzo Noise, cosparso da una melodia soffusa che grida vendetta e, strutturalmente,  potrebbe dirsi lo stesso anche di "Bitcher", il brano più "americano" del lotto.

Infine, smaltita la sbornia dovuta a strati e substrati di rumore, bisogna, razionalmente, incanalare quest’opera in un ambito settoriale, scindere musica e (non)musica. Dopo l’inibizione iniziale ci sarà spazio unicamente per lo stupore. Grigi e inquiet(ant)i, i tre neozelandesi riescono a radicarsi all'interno dell'ascoltatore con una lentezza che viaggia di pari passo con il loro mood. Il tempo e gli ascolti riveleranno cose che (noi umani) non abbiamo mai voluto vedere. E sarà così piacevole lasciarsi inglobare dal vortice.

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