E' bello pensare che dalla "civiltà" hardcore non siano scaturiti solo furore e livore, ma anche divertiti e improbabili accostamenti, recuperi impensati, alchimie miracolose, piccole enciclopedie multi-etniche, satira e demenza. Già i Dickies, a fine anni 70, ci avevano ricordato che l'epopea del punk aveva avuto inizio in maniera tutt'altro che rabbiosa e disgustata: i Ramones puntarono tutto sullo humour, sui non-sense, sull'aspetto più evasivo dell'adolescenza, sulla sana e intelligente idiozia dei collegiali americani. Ma erano altri tempi, altra musica, l'hardcore non esisteva ancora... poco dopo arrivarono gli Angry Samoans, ma il loro era ancora uno stile "old-school", con tutta la strafottenza che era già stata dei Circle Jerks... poi a un certo punto i Camper Van Beethoven si misero a cantare "Club Med Sucks" e l'hardcore scoprì di poter essere anche demenziale. Ed ecco i Vandals, i Dead Milkmen e tanti altri mattacchioni. Che poi erano mattacchioni fino a un certo punto, perché le radici restavano pur sempre hardcore, segnate a vita dall'amarezza, dallo sgomento e, soprattutto, dalla consapevolezza...Ci sarebbero anche i Butthole Surfers, ma confinare la delirante trinità Haynes/Leary/Coffey nell'umile (sia pur sfiziosissimo) piatto dell'hardcore demenziale, mi pare ingeneroso e riduttivo.

Philadelphia (Pennsylvania), 1988. Siamo ancora lì, nella decade d'oro del rock indipendente a stelle e strisce. "Beelzebubba" fu il quarto lavoro di questo stravagante ensemble capace di frullare in irresistibili miniature decenni di tradizioni folk di ogni dove, suonando qualsiasi strumento, approssimandosi così ai mosaici più creativi di band come They Might Be Giants e Young Fresh Fellows (chiedo scusa in anticipo per l'odiosissima carrellata di gruppi misconosciuti, però talvolta il citazionismo è un male necessario: questi gruppi non compaiono nelle enciclopedie di regime, perché non se li fila nessuno, pur avendo fatto canzoni mille vole più orecchiabili di band ben più blasonate, come i Sonic Youth...misteri della critica musicale).
La copertina è il primo capolavoro del disco. Il secondo è "Punk Rock Girl", una delle quadriglie più irrefrenabili che siano mai uscite dal repertorio di una band di punkettoni: ritmo sfalzato, fisarmoniche in allegria e Rodney Anonymous che imita Paperino. Difficile orientarsi nella sfaccettata proposta dei "lattai", perché ogni brano è una riserva di stravaganze e di paradossi.

Gli aromi etnici emergono nella solenne serpentina di "Stuart" e soprattutto in "Bran In The Flat", con cui l'hardcore sbarca sulle coste del Mediterraneo e si lancia in una costipatissima tarantella, a colpi di mandolino. Sul fronte puramente revivalistico, i "graffiti" di "Bad Party" e "Bleach Boys" rievocano i magici 60's.
Ma non sempre il sole splende sopra Philadelphia. La sorridente California dei Camper Van Beethoven è lontana e i Milkmen ce lo ricordano nell'opprimente "Everybody's Got Nice Stuff But Me", in cui dispensano veleno a volontà, mentre "Guitar Song" richiama i Meat Puppets, col suo inizio sommesso, elegiaco, amareggiato, fino al momento in cui il canto si scioglie in un pianto dirotto, mentre un organetto in lontananza ammanta d'epica l'atmosfera di quello che risulta il brano più accorato della rassegna.

Tra i toni ansiosi di "I Walk The Thinnest Line" e quelli spensierati di "Howard Beware", i Milkmen trovano il tempo di resuscitare i gloriosi Big Boys e il loro estroverso funk-core, con gli esuberanti tromboni che addobbano "RC's Mom" e i cambi di tempo brucianti di "Smokin' Banana Peels", impreziosito da un tenero intermezzo sognante ... E "I Against Osbourne" pare uscita da uno dei primi dischi dei Minutemen, tanto è concisa, rabbiosa e spiazzante. "Born To Love Volcanos", elegantissimo e frenetico numero folk-rock, vertice di eleganza, trasognamento, vitalismo, lirismo, con preziosissimi innesti di archi e mandolino, capaci di mantenere un'incredibile coerenza nonostante i numerosi stravolgimenti, è la prova definitiva della competenza strumentale di questa band.

A chiudere questo rutilante luna-park del "varietà americano" è l'inno "Life Is Shit", cantato in coro, sintesi estrema della filosofia di vita di una band che ha saputo riscattare con la fantasia e l'ingegno il nichilismo della propria generazione.

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