Li vediamo che si stagliano sul cielo arancione tipico delle notti nelle periferie metropolitane: l'hangar che ospita l'Estragon e un circo, uno accanto all'altro. Entriamo nel primo senza immaginare che, per la serata, prenderà a tratti le sembianze del secondo.

L'unica data italiana dei Decemberists prende il via attorno alle undici meno un quarto: il pubblico è piuttosto numeroso, si sente parlare americano in più di un capannello. Prima dell'ingresso dei sei di Portland una voce fuori campo dà qualche indicazione ai presenti: la prima dice di stringere la mano al proprio vicino, la seconda invita a descriversi in dieci secondi (peccato che le presentazioni si sovrappongano e nessuno ci capisca una cippa), la terza spinge ad accogliere la band. Entrano in sei, dunque, nel boato: Colin Meloy indossa una bizzarra giacca bianca su jeans, cosa che lo fa assomigliare vagamente al barman di un albergo dopo aver staccato, con quegli occhiali un po' nerd e la fronte coperta dal capello impiegatizio; Chris Funk (chitarre, banjo, violino, quant'altro) sembra un banchiere sovrappeso; Jenny Conlee (tastiere, hammond, fisarmonica) la signora un po' invasata che suona l'organo nelle chiese; John Moen (batteria) è l'incrocio assurdo tra un amish e un yippie; elegante e sobrio è Nate Query (basso, contrabbasso); Lisa Molinaro (violino, xilofono, voce) è la ragazza per bene diplomata da poco al conservatorio. Età media: 35-40 anni. Iniziano un po' rigidi, al limite del didascalico: attaccano "The Crane Wife 3" (l'apertura dell'ultimo disco), e la fanno seguire senza convenevoli dalla polimorfa "The Island / Come And See / The Landlord's Daughter / You'll Not Feel The Drowning", che segue anche nella successione dell'album. Tutto ciò, accanto al fatto che i due brani vengono eseguiti esattamente come nel disco, fino al minimo dettaglio, fa sì che subentri un attimo di ammirato terrore. Ma è una maestria, solo un po' troppo calligrafica, per dimostrare che tecnicamente i Decemberisti ci sanno fare eccome: complimenti.         

Il resto è divertimento puro: Meloy si scioglie e inizia a sparare insulsaggini, commentando qua e là le grida di delirio provenienti da fan indistinti; l'ordine del disco viene spezzato dall'inserimento di due pezzi da "Picaresque" ("We Both Go Down Together" e "The Engine Driver"); la gente canta sopra la voce nasale ma raramente scomposta di Meloy; sul palco iniziano visibilmente a divertirsi. Le facce più espressive e ridicole le offre la Conlee, anche se il più fulminato sembra senz'altro Moen. Seguirli sul palco non è difficile, non si muovono molto, anche se ogni tanto si scambiano le posizioni:  Moen alle tastiere, la Molinaro al banjo, Funk al violino. Quest'ultimo sfoggia una carrellata impressionante di strumenti, a volte decisamente improbabili, come una chitarra a manovella che utilizza per il riff base di "Sons And Daughters" (una ghironda? altri suggerimenti?). Durante il noir favoloso di "Shankill Butchers" restano sul palco Meloy e la Conlee, mentre in "Yankee Bayonet" Meloy duetta dolcemente con la Molinaro. Il momento clou, dopo i ritmi più sostenuti di "Billy Liar" e "O Valencia!", arriva nella coda di una spumeggiante "16 Military Wives" - tacendo su quanto attuali potessero suonare le parole del ritornello nel giorno di Vicenza ("Because America can and America can't say no, and America does if America says it's so"). Succede questo: Meloy divide il pubblico in due schieramenti, costringendolo ad aprire un corridoio nel mezzo. Invita quindi le due ali a guardarsi in cagnesco e ad agitare i pugni l'una contro l'altra, e quindi lancia una competizione su quale delle due urlerà più forte il "na na na na na na na na" che chiude il pezzo mimando il cicaleccio televisivo. Dirige lui i gruppi con il braccio: primo l'uno poi l'altro, a ritmo sempre più vorticoso, fino a quando i due cori si sovrappongono, il pezzo riparte alla grande e i due schieramenti tornano a confondersi.

Coinvolgimento simile in "Sons and Daughters", che chiude il concerto con il coro del pubblico. Il ritorno sul palco è nel nome della dolcezza ("Red Right Ankle", con solo Meloy sul palco, e "Clementine"). Per il finale delirante i Decemberists scelgono "The Chimbley Sweep": a metà canzone Meloy lascia il palco e inizia a saltellare in giro per il locale. Ogni tanto lo si perde di vista, poi ti rispunta a un metro di distanza balzellando come un canguro impazzito. Quello che non ti aspetti. Corre su e giù per il palco, sempre nella sua veste da barman, senza sudare. Quindi addormenta uno alla volta i cinque compagni con una mossa magica, facendoli cadere a terra, e costringe tutto il pubblico a chinarsi e a restare in silenzio. Eseguiamo. Lo spettacolo serve a preparare il passaggio in cui la Conlee interpreta una vedova: lei si rialza, fisarmonica al collo, e va in falsetto, Meloy-spazzacamino risponde, gli altri membri si risvegliano (tranne Funk), la musica riparte turbinosa, noi ci rialziamo urlanti, e tutto finisce in gloria con Meloy che si siede sopra il ciccioso Funk, che funge da meraviglioso capro espiatorio.

Quando usciamo il cielo è ancora arancione e il circo accanto all'Estragon è addormentato. Non importa scoprire che ci hanno aperto la macchina e inculato un cellulare e un tomtom. Che il mondo fosse pieno di teste di cazzo era arcinoto; la cosa sorprendente è come i Decemberists siano riusciti per almeno un'ora e mezza a farcelo completamente dimenticare.

Carico i commenti...  con calma