Recensire le “Desert Sessions” è sempre uno spettacolo. Per due motivi: il primo è che partecipano sempre un sacco di personaggi noti alla scena stoner e non solo, cosa che potrebbe far storcere il naso a qualcuno, visto che gente di quel calibro potrebbe fare uno zibaldone di tutte le influenze che porta senza concludere niente; il caso non è questo visto che alla regia ci sta quel Josh Homme che all’epoca (si parla del 2003) era una vera e propria miniera di idee (buone). Fin qui si direbbe tutto ok.
La seconda motivazione è che essendo diciamo un “side project” di Homme, questi dischi racchiudono materiale più “alternativo” rispetto alle pubblicazioni dei gruppi base. Per spiegarmi meglio: un disco dei QOTSA è sì alternativo, ma un “Desert Sessions” lo supera, in numero di sperimentazioni e suoni. Ed è questo il bello, appunto la sperimentazione che Homme prova nel suo studio nel deserto (da qui il nome), fatti come delle capre, tutti insieme appassionatamente. Nel volume 9 e 10 troviamo oltre ai “soliti noti” Castillo, Chris Goss e Troy van Leeuwen, una PJ Harvey veramente in forma, Jeordie White (aka Twiggy Ramirez) bassista di NiN, APC e Marilyn Manson (basta?), Dean Ween (Ween) e Alain Johannes (Eleven). Come formazione non c’è male. Come ho detto le sperimentazioni sono molte. Chi sembra aver lasciato maggiormente il segno è PJ Harvey, che in “Powered Wig Machine” e “Holey Dime” troviamo batterie elettroniche e distorsioni tipiche del suo “Is This Desire?”. Anche “A Girl Like Me” mette in risalto la sua voce, scatenando quasi un senso di vogliosità da parte sua. Tracce più acustiche contryeggianti come “Creosote”, più incisive e martellanti come “There Will Be a Better Time” e dal sapore di canzonetta come “I’m Here for Your Daughter”, fanno da intermezzo a tormentoni “Robot Rock” come sono “In My Head”, I Wanna Make it Wit Chu” (riprese in successive pubblicazioni di QOTSA) e “Crawl Home”.
C’è spazio anche per l’anarchia di “Covered in Punks Blood”, chitarra basso e batteria che giocano ad inseguirsi (gran lavoro di quest’ ultima sapientemente suonata dal buon Castillo); l’apertura in tono agrodolce di “Dead in Love” con il suo finale piano + chitarra elettrifica effettata; “Subcutaneus Phat”, tipico esempio di un buon rock e buon giro di basso. Conclude “Bring it Back Gentle”, forse la più normale e senza spunti del disco. Che dire: anche questa volta Homme e soci hanno forgiato un disco di rock che certamente non resterà negli annali della musica quanto ad originalità, ma che comunque offre un qualcosa di diverso alla solita musica rock che circolava all’epoca nei vari palinsesti di radio-tv rock. Ascoltabile e godibile anche da orecchie meno esperte o di altri genere, un disco suonato in tutto e per tutto senza tanti magheggi post produzione. E forse sta qui la sua forza.
Voto: 7+
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