The Dillinger Escape Plan, tredici anni di attività, quattordici membri tra fondatori, più o meno stabili, e comparse sfuggevoli, tre LP, cinque EP più un live DVD, ed un quarto, totalmente nuovo LP.
"Option Paralysis" nasce in un momento particolare della band, ormai riconosciuta istituzione in ambito estremo. Da loro (ma non solo: vanno citati obbligatoriamente anche gli immensi Botch e i destabilizzanti Coalesce) ha preso via il mathcore: contorsioni e funambolismi matematici portati all'estremo con furia hardcore, ma anche hardcore assottigliato e reso instabile, imprevedibile, caotico o magmatico. "Calculating Infinity", quell'LP di debutto targato 1999, è rimasto nel cuore di molti - nessuno suonava così storto, violento eccetera ai tempi.
Quest'eredità i DEP se la continuano a portare dietro, nel bene o nel male: di tutti i dischi successivi si sente sempre, prima o poi, che "per tutti i puffi! Non è come Calculating Infinity!".
Io, purtroppo per questo tipo di persone, sono uno che mi piacciono queste cose: amo i gruppi dinamici, i musicisti che capiscono che "sperimentale" non equivale a "quello che non passa in televisione" ma equivale a movimento, a rimanere sempre instabili, incorporare nuove influenze, cambiare i punti di vista, migliorare ciò che si riconosce come stantìo o difettoso, limare eventuali spigoli indesiderati, e crearne di nuovi dove non se ne potrebbero immaginare.
Per questo "Option Paralysis", nonostante, corbezzoli! non sia come "Calculating Infinity", m'è piaciuto: la band (complice anche un rinnovatore cambio d'etichetta, dalla Relapse alla più piccola Seasons of Mist) ha realizzato il suo disco più lungo (niente paura: sempre quarantuno minuti) e meglio amalgamato. Le parti furiose, al di là di un superficiale sentore di "mestiere", rivelano una cura non comune nei dettagli e nelle partiture (e parliamo dei DEP, che già hanno un songwriting "standard" schizzatissimo e imprevedibile), senza dimenticare che, porca pupazzola, i pezzi funzionano, e nonostante l'aumento della lunghezza media tengono incollati alle cuffie/casse/impianto, riuscendo anche a buttar giù numerosi episodi melodici di ottimo livello che non sono più, come spesso succedeva in passato, inseriti a mo' di pausa, intermezzo, o di singolone per farci un video: pezzi violentissimi possono terminare con lunghe, quasi epiche code, i pezzi più dominati dall'elettronica e dalla melodia (precisissimi i suoni di piano) possono chiudersi nella maniera più assassina immaginabile.
Non mancano comunque i difetti: non dobbiamo dimenticare l'altra faccia della medaglia, ovverosia un rischio di omologazione dei pezzi, che però gli ascoltatori più sfegatati e più appassionati sapranno evitare, nonché un certamente pesante citazionismo al sound caro a Mike Patton, che d'altronde, dopo quella gemma di collaborazione che tirarono fuori insieme (l'EP "Irony Is A Dead Scene"), un po' era possibile se non capire quantomeno prevedere.
Storti, deviati/devianti, cattivacci, freddi ma col cuore d'oro come già li conosciamo, i Dillinger hanno finalmente saputo realizzare un disco corposo a sufficienza (e più). Dopo il caposaldo "Calculating Infinity", un Miss Machine che tastava il terreno con competenza, Ire Works che miniaturizzava e centellinava le canzoni creando miniature della più varia natura, ci troviamo di fronte a quella che potremmo definire la summa e la quadratura del cerchio del Dillinger-suono, ancora fortunatamente restio a fossilizzarsi (per dirne una venutami sul momento: cosa ne sarebbe di simili pezzi con il trattamento elettronico quasi Warpiano di certi pezzi del disco precedente?) e capace di farci godere come ci piace tanto.
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