Non mi capita spessissimo di gironzolare per il web alla ricerca di nuovi gruppi da ascoltare. Magari un tuo amico ti consiglia un nome, oppure scrolli la lista dei video suggeriti su Youtube mentre ti spari in vena per l'ennesima volta la canzone che ascolti senza soluzione di continuità da mesi e di cui presto avrai la nausea. Ma un po' per il poco tempo e un po' per la svogliatezza non approfondisci mai. Strano a dirsi, però, tutte le volte che mi sono tuffato in una totale novità con un minimo di ispirazione (forse è tutto qui, è tutto un discorso di ispirazione), di concentrazione e di voglia, ho sempre fatto scoperte sensazionali. Pochi, selezionati, privilegiati momenti, ma buoni. Buonissimi. Non fanno eccezione questi qui dal nome impronunciabile.

Lo scenario è quello della Washington post-hardcore di metà/fine anni '90, quasi orfana dei Fugazi. L'indie (ormai perfettamente plasmato già da tempo in terra d'albione dai suoi fidi alfieri post-punk) si sta pesantemente evolvendo, lungo una strada che solo qualche anno dopo lo porterà al successo globale. Anche oltreoceano le cose procedono in egual maniera. Nuove intuizioni, nuove soluzioni, sempre più fermento. A tutto questo aggiungeteci gli ultimi vagiti del grunge, il verbo degli Slint, math-rock quanto basta e un batterista che sembra un ninja. L'humus musicale è questo. Uno dei suoi germogli più colorati è questo disco.

Senza giri di parole, mi ha folgorato. In particolar modo quella che a quanto pare è la loro canzone più conosciuta (e ci sarà pure un motivo, no?): "The City". Per ottenerla basta mettere tutto quello di cui vi parlavo prima in un bel frullatore. Poi premere il tasto di avvio. In realtà tutto il lavoro è un amalgama impeccabile. Un manifesto indie, un "must have" per qualsiasi libreria alternativa. Dicevo, folgorato. D'altronde l'incipit in medias res di "A Life of Possibilities" non ti lascia proprio spazio per scappare. In men che non si dica ti ritrovi catapultato in un'atmosfera che ti ricorda vagamente i Foals. Poi, all'improvviso, chitarroni granitici che chiudono il pezzo. Ti prendono in contropiede e nemmeno te ne accorgi. Dopo i primi tre pezzi ti sembra di essere ad un party (con pochissime persone, ma tutte nel posto giusto e al momento giusto) in cui sai già che ti divertirai un casino. Poi potrei citarvi l'episodio elettronico di "You Are Invited", altra bella prova. Ed ancora canzoni che assomigliano a veri e propri stampi utilizzati su larga scala dalla maggior parte dell'indie "festaiolo" che ha caratterizzato tutta la prima decade del nuovo millennio ("Back and Forth"). Ma un lavoro simile non se lo merita il track by track. Perchè è scontato. E ci troviamo di fronte a qualcosa che scontato non è. Dunque via libera all'ascolto. Lasciatevi trascinare nell'entusiasmo, nell'energia, nella varietà e nel sudore di questa folla impazzita che vi sbatte a destra e sinistra, mentre voi cercate di tenere saldamente in mano la vostra birra nel disperato tentativo di non rovesciarla sulle scarpe nuove comprate giusto l'altro ieri. A meno che non siate già totalmente ubriachi, ovviamente.

Spacca, suona attuale (è del '99) e sta avanti. Nel senso che gli altri sono dietro a rincorrere, col fiatone e la lingua di fuori.  

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