Un'aria di novità scombussola i canoni dell'heavy metal, allietando queste ultime giornate primaverili colte da un improvviso moto di piogge che, ormai, sembra aver concluso il proprio corso per lasciare spazio al torrido calore estivo. Che siano questi i giorni più adatti a morire? Chissà... Lasciamo che sia il fato a decretare la nostra ora solenne e, intanto, gustiamoci il nuovo album dei The Dogma, ennesima rivelazione della scena metal italiana, balzata agli onori della cronaca nei precedenti anni grazie al demo "Symphonies of love and hate" ed al perfetto debutto "Black roses", autentico amalgama di metallo pesante e malinconiche, talvolta funeree, sensazioni gotiche. Non vi inganni la data d'uscita del nuovo lavoro del quintetto anconetano (l'album è distribuito dal mese di aprile dalla Drakkar Records), con "A good day to die", i nostri ritornano più convincenti che mai per allietare i nostri padiglioni, per scandagliare anche la più recondita sensibilità e, com'è giusto che sia, per travolgerci con il loro impetuoso assalto melodico.

Trainato dalla dirompente ugola del dickinsoniano Daniele Santori, dai tecnicismi del chitarrista Cosimo Binetti (che in ogni episodio regala un bellissimo assolo) e dal martellante drumming di Marco Bianchella (recentemente tornato tra le file della band dopo che, ad un infortunio che lo mise fuori gioco, conseguì la possibilità che il leggendario Mike Terrana, ex-Rage, registrasse tutte le parti di batteria per "Black roses"), "A good day to die" si dipana attraverso tredici tracce che, da qualsiasi punto di vista le si analizzi, trasudano pura perfezione. La drammaticità in bianco e nero perfettamente incorniciata nell'artwork si tramuta ben presto in realtà, grazie all'intro "Beginning of the end", breve preambolo con versi di un rito funebre e tristi note di pianoforte in sottofondo destinato ad esplodere nel trainante ma al contempo malinconico main riff della titletrack. L'opener si assesta su un bel mid-tempo ed è giocato sulla riuscita alternanza tra pianoforte e chitarra, con un bell'innesto di orchestrazioni e la piacevole voce di Lisa Middelhauve (Xandria) a dar man forte alla squadra, perfettamente calata nel ruolo di cantori di speranze infrante e ricordi dolorosi. E poi, siccome i nostri hanno deciso di non ripetersi, due iniezioni di pura adrenalina modern-power ("In the name of rock" e "Bitches street") ci travolgono con la loro orecchiabilità, grazie soprattutto al lavoro del tastierista Stefano Smeriglio, autore di passaggi memori degli ultimi Edguy. Non pensate però che l'animo dei The Dogma sia diventato allegro tutto d'un colpo; permangono infatti un'amarezza di fondo ed una rabbia chiaroscurale trapelanti nelle curate liriche di entrambi i brani. L'ascoltatore sentirà poi brividi freddi correre lungo la propria schiena nel momento in cui verrà investito dal magniloquente tripudio lirico di "She falls on her grave", dalle movenze gotiche di "I hate your love" e dal commuovente dramma magistralmente intessuto nella ballad "Autumn Tears", palco dal quale poter ammirare le lodevoli capacità interpretative di Daniele, in questo caso dolce come una pioggia primaverile, toccante nella sua emanata tristezza. Siamo di fronte a tre capolavori di malinconia, inframmezzati soltanto da una anthemica e molto heavy "Ridin' the dark".

Introdotta da un riff di Smeriglio, "Angel in cage" mette presto in primo piano la sfrontatezza delle strofe e la tramuta in languore dark nel ritornello di memoria scandinava, il cui controcanto è nuovamente affidato alla singer degli Xandria. Una parentesi leggermente sottotono prontamente bilanciata da "Back from hell", brano impreziosito da numerosi cambi di tempo e da un ritornello in cui il basso di Andrea Massetti e la batteria di Bianchella sembrano voler squarciare il cielo con la propria veemenza, aiutati per l'occasione da un coro lirico imponente e dannato. Nella parte finale assoli di chitarra e tastiera si susseguono all'impazzata. Che le note di questo capolavoro rimangano impresse, come marchiate a fuoco, nella vostra memoria. "Feel my pain" denota l'ennesima cura per gli arrangiamenti, i quali non diventano mai stucchevoli o preponderanti come al cospetto di altri metal act, ma concorrono sempre a creare un bel crescendo, come quello di questo brano, affidato al duetto tra Daniele ed il coro. "Bullet in my soul" è l'ultimo baluardo metallico del disco: tenori e soprani intonano un Requiem e la voce del cantante urla al cielo, per l'ennesima volta, la propria disperazione. Ma questo è solo il preludio all'elegiaco trionfo d'archi e mestizia di "Christine closed her eyes", atto finale di un concept senza speranza, epitaffio di un disco trascinante e memorabile.

Con il secondo capitolo della loro saga, i The Dogma si riconfermano una band ispirata e più che mai convincente (anche se meno complessa rispetto al debutto), pronta al grande salto ormai già da due anni. "A good day to die" è un album che rilegge tematiche gotiche in chiave heavy con una naturalezza invidiabile e disarmante; stavolta è davvero il caso di gridare al miracolo. La musica italiana ha una nuova grande gloria della quale andare fiera.

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