Nel 1983 i Japan si sciolgono. Le carriere dei quattro componenti, tra lavori solisti e progetti paralleli si dividono. L'avventura più fortunata rimane senza dubbio quella di David Sylvian, capace di sfornare dischi eccellenti, seppur coadiuvato da nomi di grosso calibro. Suo fratello Steve Jensen invece, decide nel 1987 di unirsi ad un altro ex Japan, il tastierista Richard Barbieri, per dar vita al progetto Dolphin Brothers. Nasce così "Catch The Fall", un disco che possiede il marchio di fabbrica inconfondibile dei due.

Si tratta di un lavoro che si dipana abilmente tra ballate decadenti e brani più energetici, in cui emerge lo sferzante batterismo di Jensen, che pare però più imbrigliato rispetto alle imprevedibili pulsioni dei Japan. Il "Sylvian brother" si rifà con una convincente prova al canto, sfoggiando una suadente intonazione ed un calore non molto distanti dal più famoso fratello. La timbrica è infatti abbastanza simile, e in un primo momento non è difficile incappare in un'imbarazzante confusione. Barbieri dal canto suo è quello che sicuramente influenza di più il sound generale, con quell'affascinante esotismo che tanta fortuna portò alla musica dei Japan (soprattutto Quiet Life e Gentlemen Take Polaroids).

L'introduzione è affidata furbescamente alla title-track, uno dei pezzi migliori del disco: un lento, sinuoso snodarsi su un orientaleggiante percussionismo, che Barbieri annebbia abilmente con strati di tastiere crepuscolari. Tutto molto elegante, magistralmente rifinito, con un suono notevole ed una certosina cura del dettaglio. Questa caratteristica, di per sé positiva, porta a pensare però che si tratti di un lavoro un po' di maniera, fatto da due che conoscono molto bene il loro mestiere, e che, una volta insieme, non possono comunque sfornare qualcosa di orrendo, non foss'altro per la loro classe ed esperienza.
La traccia successiva, "Shining", conferma quest'impressione, un trascinante rock-pop tutto sommato però prevedibile, troppo patinato, senza particolari trovate, e, in fin dei conti, privo di una solida base.
Fa meglio "Second Sight", dove a risaltare è l'indovinato ritornello, impreziosito dai soliti brillanti ricami tastieristici.
Il livello torna ad abbassarsi nella seguente "Love That You Need", un'altra prevedibile (ed anche troppo prolissa) escursione nel cocktail-lounge più atmosferico, con tanto di vocalizzi paradisiaci femminili.
Meno male che "Real Answers" dimostra di possedere invece una caratura decisamente superiore: Il ritmo ritorna protagonista, con tutta la potenza di cui Jensen è capace, dando vita ad un semi-ballabile venato d'orientalismi sintetici come vuole la gloriosa tradizione Japan. La classe insomma c'è, e questa volta emerge in pieno.
Subito dopo, si scende nuovamente in territori più rarefatti. A farla da padrone è il delicato tocco di Barbieri, che si concede strati elettronici quasi ambient, con Jensen che si erge a protagonista in una sezione mediana degna del Sylvian più meditativo. In fin dei conti, un ottimo brano, ma il discorso fatto in precedenza non cambia.
"My Winter" si distende su un pianismo languido, tenue e giustamente liquido, accompagnato dalla solita brezza di fondo, dove il ritmo è completamente assente e la rarefazione diventa totale. Un brano suggestivo, più che altro perché creato "per suggestionare", e che per questo finisce col diventare salottiero.
Il congedo finale è affidato alla convincente "Pushing The River", sapientemente speziata da indefinibili figure elettroniche, orecchiabile e seducente, indubbiamente una delle migliori canzoni dell'album.

Terminato l'ascolto si resta con la sensazione di un lavoro incostante ma soprattutto furbo, con molta classe, molta eleganza, ma un po' troppo pretenzioso.

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