Il quinto album dei Doobies, anno 1975, suona abbastanza diverso rispetto ai quattro precedenti, ad onta del fatto che il produttore continua ad essere lo stesso, quel Ted Templeman che, dopo aver fatto fortuna con loro, ne farà altrettanta e ancor di più con i Van Halen a fine anni settanta e negli ottanta.
Cosa c'è di nuovo? Due cose principalmente: la prima è che vi è un terzo chitarrista a fianco dei due leaders, cantanti e compositori Tom Johnston e Pat Simmons: Jeff Baxter, detto chissà perché Skunk (mascalzone) è un musicista abile e virtuoso che, avendo perso il posto di lavoro negli Steely Dan intenzionati ad andare avanti come duo e senza dare più concerti, aveva pensato bene di accostarsi ai nostri, prima collaborando nei due dischi precedenti e poi convincendoli a prenderlo in carico a pieno titolo. Lo stile e le idee esecutive di Jeff, musicista tecnicamente ad altissimo livello e dal fraseggio più intricato ed imprevedibile di quello dei colleghi, più jazz insomma, arricchiscono il caleidoscopio di umori chitarristici a disposizione della formazione.
La seconda novità sono gli arrangiamenti di archi e/o fiati, presenti su ben sette canzoni delle undici in scaletta, specchio evidente di un tentativo di arricchire l'irresistibile punch ritmico e la contagiosa propensione commerciale dei ritornelli e dei cori, dando ad essi un ambiente più raffinato, più generalista, anche più ruffiano. Uno degli arrangiamenti è addirittura curato da Curtis Mayfield, un grande del rhythm&blues, sicuramente tra i favoriti di questi sei californiani dediti a un rock pieno di soul e di solare funk.
Il risultato di ciò è sì un album più ricco, più ragionato, più adulto e pretenzioso, ma anche meno spontaneo, meno fresco, meno radioso e simpatico. Di poco, beninteso, ma la cosa si avverte e personalmente li preferivo prima, più ruspanti e con meno gente intorno a far musica insieme a loro, anche se sono tutti bei nomi come Ry Cooder, Bill Payne...
Il disco si apre e si chiude con due rock'n'roll, intitolati rispettivamente "Sweet Maxine" e "Double Dealin' For Flusher", entrambi scritti da Simmons che in questa uscita discografica va a scambiarsi con Johnston i rispettivi ruoli abituali: il suo timbro vocale più dolce e la sua superba tecnica alla chitarra acustica arpeggiata l'avevano sino a quel momento inquadrato come l'uomo delle ballate, dei country rock, del lato acustico della formazione. Invece su "Stampede" è Pat quello che spinge di più sull'acceleratore ed alza di più la voce. A parte i due episodi di cui sopra, è pertinente a questo discorso soprattutto la torrenziale "Neal's Fandango", una faccenda a centosettanta battute per minuto che prima spara un testo frenetico e a rischio di asfissia, veramente difficile da cantare, e poi introduce una girandola strumentale fatta di assoli incrociati o armonizzati fra i tre chitarristi.
Il brano storicamente più fortunato dell'album è comunque l'unica cover presente: "Rock Me in Your Arms" è un episodio di rhythm&blues sessantiano (creatura del solito trio di compositori e produttori della Motown, Holland/Dozier/Holland), dinamicizzato dal fenomenale punch della chitarra ritmica di Johnston e portato in gloria dai poderosi cori gospel a tutto diaframma; un vero invito a cantare e dimenare il culo, cosa che puntualmente si verifica quando la band la propone in concerto. Qualsiasi americano la conosce, precisamente in questa versione dei Doobie Brothers, che surclassa i precedenti suoi interpreti Kim Weston, Isley Brothers e Jermaine Jackson.
La mia preferita è però "Rainy Day Crossroads Blues", spinta nella prima parte dal fantastico braccio destro di Tom Johnston che percuote lo strumento acustico con rara potenza e compattezza, trasformandolo in una fucina ritmica ancor più efficace di un'elettrica. Gli tiene bordone Jeff Baxter con un dobro suonato col ditale slide e tutto sembra risolversi in uno shuffle blues acustico, invece dopo due minuti la canzone ha uno stop a seguire, il ritmo si distende e un tappeto d'orchestra viene ad accogliere gli strumenti in gioco, dilatando l'atmosfera a colonna sonora western, pigra e sorniona, per una coda strumentale ondeggiante e gonfia, massimamente antitetica all'asciutto, rootsy blues iniziale. Solo una classe sterminata può permettere di accostare nella stessa composizione due visioni così diverse: lodi sperticate al produttore, ma ancor più all'arrangiatore Nick De Caro, messo al lavoro per l'occasione.
Lo stesso De Caro tenta di ripetere il giochetto nella composizione più ambiziosa dell'album "I Cheat The Hangman", ma l'esito si rivela stavolta un poco stucchevole. Cambiano le premesse, anzi si capovolgono: il tempo è lento nella parte iniziale, cantata dall'autore Simmons, prendendo poi a correre nella lunga coda strumentale. Pat vi narra una triste storia ispiratagli dalla lettura di un romanzo, a proposito dello spettro di un morto della guerra civile che ritorna nei luoghi d'origine non rendendosi conto che non è più vivo... finché un mare d'archi avviluppa il tutto, prende a sostenere lamenti di ottoni, sintetizzatori, chitarre e trascina il tutto fino ad oltre i sei minuti, per una performance di american progressive rock suggestiva ma edulcorata.
Simmons si rifà alla grande nel proprio strumentale "Slack Key Soquel Rag", una performance di alta scuola di fingerpicking. C'è solo lui, con due diverse chitarre acustiche, una per canale dello stereo, che si intersecano e si completano in arabeschi magnifici, pregni di risonanze e perfette armonie. Neanche due minuti per questo vero atto di forza del pirotecnico musicista, tutto da solo a stupire con un autentico gioiello particolarmente apprezzabile per chi suona la chitarra. No problem comunque per la sua riproposta dal vivo: Pat si fa affiancare dall'attuale terzo chitarrista del gruppo John McFee (altro suonatore da panico) e la riproposta è sempre perfetta, uguale identica all'originale.
Ultimo episodio da citare è la radiosa ballata country rock "Texas Lullaby", con Johnston che celebra le bellezze della vita agreste all'aria aperta, accompagnandosi con una quieta chitarra elettrica deliziosamente effettata col vibrato di un ampli Fender che la rende fluttuante, proprio a ninna nanna come il titolo suggerisce, ancor più accentuata dalle dolci e sapienti note lunghe della Steel Guitar di Baxter.
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