Il secondo album della formazione californiana si pone come uno dei classici della loro ricca discografia (13 dischi in studio), contenendo ben tre brani che da qui (1972) in poi costituiranno presenze pressoché fisse ai loro concerti. Il pressoché va omesso se ci si focalizza sul primo dei  tre, ossia l'apripista "Listen To The Music", destinato da sempre a fare da sacrosanto bis finale a qualsiasi loro esibizione, altrimenti i fans non abbandonano l'arena.

Vera antitesi alle depressioni punk, new wave, cantautorali, grunge eccetera e forse proprio per questo mediamente assai osteggiata nella contorta e fardellosa Italia (dove infatti mi risulta non abbiano mai inteso mettere piede per suonare, in quarant'anni di carriera!), la musica dei nostri può essere seguita e apprezzata a due distinti livelli: il primo è superficiale, popolare, semplice, tipicamente da bikers, da motociclisti; qui hanno buon gioco i ritornelli accattivanti a cori spiegati e l'esuberanza ritmica che, senza focalizzarsi in un genere preciso ma shakerando due tre o quattro generi insieme, riesce a far muovere il piedino anche a certe nonne.

Il secondo livello è da musicisti: niente particolari virtuosismi o concessioni soliste in vista, sono invece la capacità di arrangiamento e la fenomenale risultante ritmica e armonica a destare l'ammirazione di chi ascolta la musica sapendo abbastanza distintamente che cosa stia succedendo fra gli strumenti. Ovvio che in entrambi i casi è indispensabile quel gusto per la musica americana al 101%... talmente americana da sembrare sempliciotta, quando non lo è affatto se non dal lato dei testi. 

Il passo avanti di "Toulouse Street" dall'esordio auto intitolato dell'anno prima è ben tangibile. Il songwriting prende quota, la varietà di ispirazione e di arrangiamento pure e poi la formazione guadagna agilità e sfaccettature ritmiche con l'inserimento di un secondo batterista (e percussionista) a duettare col primo; le chitarre elettriche prendono inoltre a suonare più corpose e decise, rivaleggiando con le acustiche che avevano stra-dominato il primo lavoro.

Gli altri ingredienti già a fuoco anche nell'esordio sono i cori a profusione come California comanda, un po' di sano vecchio blues, il felice sdoppiamento di responsabilità fra Tom Johnston e Pat Simmons per quanto concerne la composizione, la voce solista, le chitarre.

Il più prolifico Johnston fa la parte del leone firmando cinque pezzi, fra cui la citata e celeberrima "Listen To The Music", l'altrettanto trascinante "Rockin' Down The Highway" più elettrica e frenetica e anch'essa da sempre richiesta ed eseguita sul palco, l'efficace "Disciple" che si dilunga in una corposa fase strumentale e poi due episodi brevi e più di routine, la ballata "White Sun" che odora molto di avanzo dal primo album ed il breve, delizioso blues acustico "Snake Man" che vede Tom tutto da solo, a cantare ed arpeggiare in un vero omaggio allo stile del padre di tutti i padri blues: Robert Johnson.

La prima canzone di Pat Simmons che si incontra in scaletta è anche la meno riuscita del lotto: "Mamaloi" è una digressione dalle parti del reggae che resterà episodio isolato nella carriera del gruppo, così come il fatto che Pat non sia per l'occasione voce solista di un suo pezzo, avendola affidata al suo compare Johnston forse per ricambiare il suo intervento sul bridge del mega hit del compagno "Listen To The Music".

Simmons si rifà però alla grande, firmando e cantando la perla assoluta dell'opera e cioè la ballata che dà ad essa il titolo: tre minuti e mezzo scarsi di mirabile arpeggio in fingerpicking, tecnica di cui l'ancor oggi capellone Pat è maestro, sulla quale il musicista prende a cantare di questa affollata via di New Orleans descrivendo una melodia accorata e magica, prima da solo e poi spalleggiato dalle armonie vocali dei compagni ... una perla!

Un altro super classico (americanamente parlando) presente nel disco e poi in tantissimi concerti di questa band, è la cover di "Jesus Is Just All Right", un brano gospel (ma va, dal titolo non si sarebbe detto...) di certo Arthur Reid Reynolds, coverizzato qualche anno prima anche da Byrds, Yardbirds, Alexis Corner e Ventures. Nessun problema per le brillanti voci dei due chitarristi e del bassista Tiran Porter nel ricreare i ricchi cori gospel del pezzo, ma in aggiunta Johnston ci intercala anche un nodoso riffone di chitarra, i due batteristi John Hartman e Michael Hossack lavorano da par loro e ne viene fuori una versione bella rock, che rispetto all'originale aggiunge una ballabilità estrema (per chi non è rincoglionito dalla musica finta che passa il 99,9% dei dj, naturalmente).

Le altre due cover presenti nell'album sono una ottima e una trascurabile: quella ok ha per titolo "Don't Start Me To Talking", scritta negli anni cinquanta dal bluesman Sonny Boy Williamson e incisa col suo gruppo del tempo, che annoverava alle chitarre Muddy Waters e Jimmy Rogers, al basso Willie Dixon e al piano Otis Spann...Minchia che gente! Ovviamente stiamo parlando di rock blues, dato che è coinvolta la metà dei padri di questo genere. C'è da scommettere che per i Doobies questo brano avesse costituito uno dei pezzi rompighiaccio per le prime prove insieme, scelto per suonare da subito qualcosa di semplice e conosciuto ma poi sopravvissuto fino all'onore della pubblicazione su album, vista l'efficacia della reinterpretazione.

L'ultima cover "Cotton Mouth" è ripresa da uno strano duo country/folk/fricchettone ed iper-religioso denominato Seals & Crofts, il primo James S. chitarrista e il secondo Dash C. invece mandolinista, entrambi poi cantanti, compositori nonché originari del Texas.

Grande disco è questo dei Doobie Brothers, tra i loro tre o quattro migliori: un'efficace fotografia della formazione ancora giovanissima, non così raffinata ed esperta e pure ruffiana come negli anni che verranno ma già estremamente smaliziata e soprattutto incisiva e trascinante.

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