"Sono giù da così tanto, che mi sembra quasi bello".
A definire "L.A. Woman" un disco blues probabilmente i puristi del genere storceranno il naso, ma effettivamente all'interno dell'ultimo lavoro dei Doors l'atmosfera che si respira dall'inizio alla fine è questa.
Morrison è ormai un relitto umano. Ha la barba talmente lunga che sembra Gesù Cristo e probabilmente soffre di una malattia ai testicoli che lo rende impotente. I suoi incontrollabili attacchi di tosse sono diventanti vere e proprie crisi respiratorie durante le quali il Re Lucertola sputa sangue, e i sogni di una trasmigrazione collettiva dall'altra parte, cui solo pochi anni fa aveva provato (o giocato?) ad essere il pastore, sono finiti.
Jim Morrison ha cambiato look e stile di vita e quella dell'alcool sembra ormai una malattia da cui non riesce più a uscire.
A tenere ancora unito il gruppo è soltanto il contratto con l'Elektra; per onorarlo bisogna fare un altro disco, solo uno, poi si chiuderanno baracca e burattini e ognuno andrà per la sua strada. Non che dispiaccia a Morrison, che dal canto suo non vede l'ora di andarsene in Francia, e si trascina come può nelle ultime avventure, anzi disavventure, concertistiche della band.
Sorprenderà che invece "L.A. Woman" sarà un disco dove il Re Lucertola metterà tutto sé stesso: aveva sempre voluto fare un disco blues, e stavolta poteva farlo.
L'idea, sebbene venga accettata dagli altri più per disperazione che altro, inizia a poco a poco inizia ad appassionare tutti. Tutti, tranne lo storico produttore Paul Rotchild, che, sfibrato dei continui capricci di Morrison, e non convinto neppure del progetto (definirà "Riders On the Storm" una canzonetta da piano bar), decide di abbandonare la band a sé stessa.
I Doors però vanno avanti comunque, e aiutati dal tecnico del suono Bruce Botnick decidono di autoprodursi.
Ironia della sorte, il fatto di tornare a una gestione autonoma dei propri pezzi porterà i Doors a registrare un disco grezzo e deciso, che farà di "L.A. Woman" il loro lavoro più coeso fin dai tempi di "Strange Days". Il disco del '67 però era rimasto nella memoria di molti per le atmosfere inquietanti e allucinate, dove le pulsioni vitali e sessuali si presentavano con eruzioni vulcaniche improvvise e terrificanti.
In "L.A. Woman" invece vige un regno di desolazione totale. In un certo senso, più che un viaggio dentro l'America, "L.A. Woman" potrebbe trattarsi di un viaggio all'interno di Morrison stesso, e il panorama che troviamo è ancora più desertico. Entrambi avevano subito cambiamenti profondi nel giro di pochissimi anni: la rapida transizione dal sogno di un flower plower a un regime di tensione, disillusione, e disordini sociali, aveva condizionato la band, nel disco in cui si doveva parlare del proprio paese, a darne un'immagine non più vibrante ed euforica, ma sconfortata e decadente.
In "Cars Hiss By My Window" Morrison è sdraiato con una delle sue amanti (pare all'epoca si concedessero per pietà nei suoi confronti), ma sente che è distante, e non può fare nulla per evitare il gelo che regna nella stanza, se non abbandonarsi al fruscio delle macchine che scorrono fuori dalla finestra. Perfino nel singolo di Krieger, "Love Her Madly", che classicamente avrebbe dovuto essere il solito motivetto da classifica, non c'è nulla di confortante. Lei esce dalla porta e se ne va, fine.
La donna di "L.A. Woman", non è più l'oggetto della salvifica libido morrisoniana, ma è fredda, distante, irraggiungibile. Un altro di quei relitti lasciati per strada come tanti cocci di bottiglie rotte stesi sul marciapiede dopo una festa durata troppo a lungo. Gli anni sessanta sono finiti.
E' solo nella title track che ritroviamo qualche vecchia fiammata dei vecchi tempi: nell'esaltante rock'n roll di "L.A. Woman" risorge la Los Angeles più scintillante, nel duello vorticoso con quella più oscura e malsana dei sobborghi. Un quadro in cui molti hanno visto la metafora della vita stessa di Morrison: geniale e depravata. Emerge limpida anche la figura della compagna Pam: un rapporto difficile, burrascoso, talvolta violento, ma inevitabile, come quello con la stessa City.
In fondo è un Jim che cerca ancora di aggrapparsi disperatamente alla vita, anche a costo di strisciare come un serpente, quasi a tentare un'ultima metamorfosi ("Crawling King Snake"), o un ultimo cambiamento prima della fine, invocato fin dal principio con l'urlo che squarcia "The Changeling".
Ma il destino sembra segnato, e la via procede retta e inesorabile come su un'autostrada: si passa per i caldi deserti de "L'America", le foreste primordiali di "WASP, Texas Radio And The Big Beat.", e infine, proprio su un'autostrada, il disco va a chiudersi.
"Riders On The Storm" è uno di quei pezzi per cui è necessario utilizzare la parola testamento più di quanto la si possa usare per ogni altra canzone del disco. Il capolavoro di "L.A. Woman" ci porta là, dritti dove tutto è iniziato. Con gli indiani, la morte e la vita condensati nella striscia di pochi attimi, prima ancora di Sofocle, Nietzsche, e Rimbaud. La pioggia batte e lava tutto ciò che c'è sulla strada, i cavalieri cavalcano la tempesta, ma alla fine sono destinati a perdersi con essa: così come vengono gettati nel mondo, così se ne vanno.
Jim Morrison, un cane senza bastone, un attore preso in prestito e consumato dalla sua stessa recita, bruciato come un asteroide nel panorama rock di fine anni sessanta, si prepara a calare il sipario su sè stesso, e a levarlo su una leggenda.
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