«Scusa, è qui il Locomotiv Club?».

E lo chiedi a me che è la prima volta che ci vengo?

Solo che sono arrivato ieri e la prima cosa che ho fatto è stato venire a scovare il Locomotiv Club.

Per cui, sì, il Locomotiv Club è qui, l’ho scoperto nemmeno venti ore fa, ma questo me lo tengo per me.

Venerdì 27 ottobre, Bologna, Locomotiv Club.

Stasera alle dieci saliranno sul palco i Dream Syndicate.

Anzi, i favolosi Dream Syndicate.

Sono da poco passate le otto ma ci tengo ad essere in anticipo.

A quanto pare, ci tiene pure il tipo che mi ha chiesto se fosse lì il Locomotiv Club e se ne va a mangiare qualcosa.

Io sono venuto già mangiato e mi piazzo a presidiare l’ingresso in attesa dell’apertura delle porte, alle nove, e osservo il movimento.

Scoccano le nove.

Ritiro la tessera per l’ingresso su un lato della cassa – qui si entra solo con la tessera di associato al club – e mi fiondo all’altro lato della cassa, esibisco il biglietto, un tizio mi timbra il dorso della mano destra, vai a capire perché, io comunque non faccio questioni e mi precipito dentro per guadagnare un posto a tiro di sudore da Steve Wynn e compagnia.

Una ventina di già tesserati mi ha scippato le prime due file, per cui mi accontento della terza.

Le nove e dieci, e dopo qualche minuto mi raggiunge il tipo che mi ha chiesto informazioni all’ingresso, opportunamente mangiato pure lui.

A pancia piena, scambiano quattro chiacchiere e pure più per ingannare il tempo, siamo praticamente coetanei e i Dream Syndicate ci stanno nel cuore da trent’anni e passa e questa è la prima volta che ci troviamo noi sotto al palco e loro sopra a quello stesso palco.

Grande cosa.

Grande pure la cosa che io mi giro e dietro mi ritrovo un energumeno colla maglietta dei Ramones, quella storica, coi nomi di Dee Dee e Tommy a fianco dei sempiterni Joey e Johnny.

La serata promette bene.

Accanto all’energumeno ce ne sta un altro colla maglietta dei Fuzztones, e va bene pure questo.

Però, tra me e me penso, che senso ha venire al concerto dei Dream Syndicate colla maglietta dei Ramones o dei Fuzztones?

Forse è per gridare al mondo quanto si è fighi, però basta esserci a questo concerto per essere fighi, tipo sono figo pure io colla mia camicia a maniche corte ed il giubbottino, che sennò ho freddo.

Con nonchalance immortalo i due energumeni dietro.

Non per niente, è che mi devo allenare, il mio fratellone che non può presenziare mi ha incaricato di fare il video almeno di «That’s What You Always Say» e «Boston», altrimenti non mi fossi nemmeno presentato di nuovo a casa.

Così qualche ora prima ho studiato su un sito la scaletta dei concerti di Milano e Torino ed ho imparato quando sarebbe stato il momento di maneggiare il telefonino con tanto di telecamera.

Per sovrappiù, prendo pure una foto di una ventina di capoccette davanti e il palco ancora vuoto.

Vuoto ancora per poco.

Perché, con precisione non proprio svizzera, alle dieci e qualche minuto, prima sbuca Jason Victor, seguito da Chris Cacavas che si piazza alle tastiere – bello che ci sia pure lui, sembra di tuffarsi ancora più a fondo nelle atmosfere Paisley – poi l’immarcescibile Dennis Duck, buoni ultimi Steve Wynn e Mark Walton.

Si parte.

Con «Halloween», e bastano le sole note dell’intro a farmi scattare sull’attenti come altri cento, e a cantare insieme a Steve; perché cantiamo tutti, anche io che i testi li so poco, però almeno «That’s Halloween» lo comprendo e so pure i momenti giusti per urlarlo.

Si chiude, quasi due ore dopo, nel marasma di «John Coltrane Stereo Blues».

Basta questo a ripagarmi.

In mezzo però ci finisce tantissimo d’altro.

Ovvio che siamo tutti lì per la storia dei Dream Syndicate, quella dei giorni del vino e delle rose e degli spettacoli itineranti dei medici ciarlatani.

Però loro sono qui con un album nuovo, pure bello, da sostenere.

Altrettanto ovvio che sette brani di quell’album finiscono suonati sul palco, manca solo «Kendra’s Dream» solo perché Kendra Smith non è lì sul palco, altrimenti sarebbe stato qualcosa che non provo nemmeno a immaginare.

Meno scontato che questi nuovi brani suonano già molto bene, una particolare menzione per quelli più tirati – nell’ ordine «The Circle», «80 West» e «Out of My Head» – e l’infinito caleidoscopio di suono «How Did I Find Myself Here».

E pure la resa delle acidule ballate «Filter Me Through You» e «Glide» è da manuale.

La morale della storia, insomma, è che i Dream Syndicate sono in ottima forma, lo hanno dimostrato in studio di registrazione, lo stanno dimostrando sul palco questa sera.

E passa in secondo piano che Steve abbia affermato in tutta onestà di aver rispolverato la storica sigla anche (forse, soprattutto) perché più attrattiva di quella solista; perché fin quando continuerà a fare musica di questo livello, per me può pure fare un featuring con Justin Bieber e ci passo sopra senza batter ciglio.

Sopra a Justin Bieber, intendo.

Per cui sette brani, e l’augurio che diventino classici.

Poi ci sta la Storia.

Otto brani, quattro da «The Days of Wine and Roses», altrettanti da «Medicine Show».

Vado con ordine.

Di «Halloween» in apertura ho detto.

Sul finire del set arriva – lo so, lo so, il telefonino ce l’ho già pronto – «That’s What You Alway Say», con quel giro di basso che lo riconosci tra mille, semplice, lineare e pulito, ad invitare il chitarrismo possente e sporco di Steve e Jason; questa, il testo lo so a memoria, ci sono frammenti che cito a ripetizione, specie quella storia del sedersi a parlare e aspettare qualche giorno ma poi lo stato d’animo ed il sentimento, quelli cambiano sempre.

Sto lì ad urlare a squarciagola e reggo in alto il telefonino, maledetto telefonino, avrei voluto agitarmi in qualche modo, e invece urlo soltanto.

Poi, a chiudere, «The Days of Wine and Roses», tirata e furiosa come sempre, proprio come nei giorni del vino e delle rose, proprio come la sera al Raji’s.

Ora si poga, mi sa che l’energumeno colla maglietta dei Ramones è lui a spintonarmi da dietro e io spintono quello davanti che si gira e mi spintona e io vado addosso al tipo che mi aveva chiesto lumi circa il Locomotiv due ore fa e lui mi blocca sorridente e rido pure io.

Nel senso che è un pogo tranquillo, a misura dei reduci di quei giorni.

Sempre quelli, ovvio.

Steve saluta ed esce seguito dagli altri.

Figurati.

Si alza subito un «Moooooooooore» che rimbomba e frastuona e i Dream Syndicate dopo nemmeno un minuto sono di nuovo sul palco, al gran completo, per il primo dei bis.

E qui arrivano i brividi grandi.

«When You Smile» la prendo per sbaglio, piccola variazione rispetto alla scaletta dei due precedenti concerti, ci sarebbe dovuta essere «Boston».

Ma quanto sono contento.

Perché quella chitarra in feedback mi rispedisce dritto dritto ai miei quindic’anni, quando questa meraviglia la ascoltai per la prima volta e mi chiesi cosa ca##o fosse mai suono e seduta stante compresi che sarebbe stato uno dei gruppi della mia vita e stasera sotto al palco col telefonino in mano non posso che dare ragione al me di trent’anni fa.

Poi non capisco più niente perché Steve e Jason attaccano per davvero col riff «Boston» e so solo che devo mantenere il più in alto e il più fermo possibile questo ca##o di telefonino perché mio fratello per questa canzone ci va matto e io gli sono andato dietro.

E neppure so che dire, forse la roba più sensata è quella che ho detto a DeMa dopo il concerto, che «Boston» finché non ci stai sotto al palco non la capisci appieno, hai voglia a sentire il vinile, forse nemmeno il concerto finale al Raji rende pienamente l’idea.

Anzi, una cosa mi viene, e cioè che piazzare prima del finale un omaggio a Tom Petty rende questi tizi che stanno sul palco ancora più grandi di quanto testimoniano quasi quarant’anni di Storia del rock.

Finisce così il bis, finisce così questa paginetta.

Rimarrebbe da dire di «Armed with an Empty Gun» e di una «Medicine Show» arrembante come mai l’avrei immaginata; della stretta di mano finale con Steve, Dennis, Mark, Jason e Chris; di Gabriele di Trento che tre ore prima mi aveva chiesto dove fosse il Locomotiv e che l’ho perso di vista dopo il concerto e mi sarebbe piaciuto salutarlo di nuovo, quindi se prima o poi capiti su questa pagina e ti ricordi, io sono Danilo di Bracciano, ciao.

Però la finisco qua una volta per tutte.

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