«Come mi sono ritrovato qui?» si domanda più stupito che spaesato Steve Wynn.

Provo a spiegarlo io.

Mettiamola così, che si ritrova qui perché un po' di anni fa fece una promessa e quella promessa non l'ha mantenuta.

Io mi ricordo che al Raji's disse che quella sarebbe stata l'ultima volta che i favolosi Dream Syndicate avrebbero cantato i giorni del vino e delle rose, e mi pareva di vederlo il sospiro di sollievo di Dennis Duck che quei giorni li aveva pestati millanta e più volte; Steve attaccò subito a fomentare il pubblico a urlare a squarciagola perché a uno spettacolo simile non avrebbero assistito nemmeno se fossero campati altri cent'anni; e le loro urla avrebbero dovuto sovrastare la sua voce, la sua chitarra e quella di Paul Cutler, i tamburi di Dennis e il basso di Mark Walton, perché quella serata sarebbe finita su due vinili e quei vinili avrebbero messo la parola fine ad una storia che fu bellissima.

Ma si sa come vanno le cose: prima c'era da celebrare il trentennale di un disco e poi il trentennale di quello che era venuto dopo e sarebbe stato bello riviverli quei giorni fatti di vino e rose; per cui quella promessa fatta tanti anni addietro o non se la ricordava più oppure se la ricordava benissimo ma l'entusiasmo del momento surclassava le ultime parole famose; e il feedback lancinante che spezzava il sogno, ora poteva farlo più vero del vero.

E dopo aver celebrato degnamente i giorni del vino e delle rose, Steve ha deciso che il vino sarebbe tornato a scorrere e le rose a profumare; detto in termini roccherrolle, ha deciso che i Dream Syndicate sarebbero tornati a fare nuova musica.

Allora chiama i vecchi compagni: Dennis ci sta, Mark ci sta, al posto di Paul il fidato Jason Victor; tre su quattro, sono quelli che avevano svegliato tutti al Raji's.

Poi, se questi siano i “veri” Dream Syndicate è questione di poco conto; ancora, se «How Did I Find Myself Here» sia il nuovo disco dei Dream Syndicate dopo 28 anni dalla notte al Raji's o il nuovo solista di Steve è, pure essa, questione sostanzialmente oziosa.

Problemi del genere, Steve non se li è posti e ha fatto bene perché, altrimenti, sarebbe potuta andare che questo album non me lo sarei mai ritrovato tra le mani e sarebbe stato un peccato; «How Did I Find Myself Here», infatti, è un bel disco; un gran bel disco, a giudicare col cuore e basta.

“Veri” o “falsi”, questi sono i Dream Syndicate del 2017 e suonano molto come il solista Steve Wynn; e di che stupirsi, se Steve fu autore della quasi totalità del repertorio, pure ai giorni del vino e delle rose?

Quel che conta – di più, la sola cosa che conta – è che il song-writing di Steve è sempre ad un livello di qualità eccelsa.

Per dire, prendiamo le massime fonti dell'ispirazione dei Dream Syndicate: Velvet Underground e Television.

Dici Velvet Underground e inizi ad ascoltare l'album dalla fine, dai sei mantrici minuti di «Kendra's Dream», che non è un plagio ma una delle più credibili riproposizioni di “quel” suono che si sia sentita nel nuovo secolo, quello sì, senza dubbio, con quel muro di chitarre che cresce e cresce e cresce, ripetutamente, senza divagazioni; ed è un colpo al cuore, perché ovvio che Kendra è Kendra Smith e che è sua la voce che viene fuori dai solchi, quella voce così leggera e avvolgente che sembra provenire da mondi lontanissimi, quasi a risvegliare la memoria di Nico: «I keep having the same dream, I keep having the same dream, it's a beautiful dream», continuo ad avere lo stesso sogno, continuo ad avere lo stesso sogno ed è un bellissimo sogno, come sognare di «Too Little, Too Late», anno domini 1982, la prima ed ultima volta di Kendra, tesserata al sindacato del sogno e davanti al microfono, talmente bella che la convinse ad andare per altri lidi, Opal ed altre meravigliose storie.

Dici Television e la memoria corre alle jam estenuanti, ma quanto appaganti, con Tom Verlaine e Richard Lloyd, e allora è sufficiente fare un passo indietro, agli undici minuti della title-track che racchiude tutto, perfino accenti jazz e funk, ed è la summa, la chiusura di un qualche cerchio, forse quello tracciato in un brano come «John Coltrane's Stereo Blues».

È qui che si ritrova, se non il suono, quanto meno la splendida attitudine dei favolosi Dream Syndicate.

Poi, ci sta tanta farina che viene dal sacco di Steve, quello che si è fatto trent'anni da solista, ma in fondo i Dream Syndicate ce li ha sempre avuti nell'anima, impossibile che andasse diversamente.

La tenebrosa, acida psichedelia di «Filter Me Through You», andamento controllato, flemmatico, ad inaugurare l'album sotto i migliori auspici, con al fianco la compagna Linda Pitmon e Chris Cacavas all'organo, e magari pure questo è un altro cerchio chiuso; le fiammate propulsive di «The Circle», grezza, aggressiva, travolgente cavalcata come soltanto lui sapeva (sa) condurre; la solare disinvoltura che aleggia in «Like Mary», e questa viene davvero fuori da qualcuno dei suoi migliori episodi solisti; il roccioso e dinamico rock di «Out Of My Head», dominato dagli intrecci chitarristici di Steve e Jason, e di «80 West», con quella linea di basso che pare tratta di peso da «That's What You Always Say» ...

«Mi sarei dovuto sedere e parlarti ma lo stato d'animo muta sempre; avrei dovuto aspettare una o due settimane ma probabilmente avrei cambiato idea» ...

Per cui meglio agire d'impulso e buttare giù queste sensazioni a caldo.

Saggiamente, ha notato il Reverendo Lys che di certo questi non sono i giorni del vino e delle rose, ma che anche questi giorni di Wynn e delle rose sono bellissimi e degni di essere raccontati.

Si ritorna a sognare ad occhi aperti.

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