Quello che, anno dopo anno, ascolto dopo ascolto, disco per disco sto imparando gradatamente è che l'eleganza non si può comprare, con nessuna valuta, a nessun prezzo. Mettiamocelo bene in testa. Certo, ci si può sempre dotare di carrellino portatile, fare la spesa di personalità, saccheggiare le vetrine con lo pseudo-pensiero in saldo, fare la fila ai megastore del riff per accaparrarsi l'offerta del mese o vestirsi dell'intellettualismo popolare così comune e banale oggidì. Riuscire, magari, a far credere di avere abbastanza idee (altrui) per soddisfare un paio di migliaia di persone a botta, salvo poi esplodere - com'è giusto che sia - nel nulla. Ma l'eleganza, no. A parità di peso, insindacabilmente, anche le pareti di cerebralità più artificiose e curate si rivelano, inconcludenti, per quello che sono. C'è chi la possiede, chi no: non è cosa da impararsi per via. La differenza tra affinarsi e raffinarsi, infatti, potrebbe passare per minima solo in visione del tutto grafica.
Non è mia intenzione sciorinare l'ennesimo, pedissequo catalogo di artisti baciati dal dono. Mi basta un gruppo, i Drift. Quattro giovanotti di San Francisco, alle prese con chitarra, batteria, tromba e contrabbasso, che giungono alla seconda prova con "Memory Drawings". Se avete già capito di cosa si tratta, probabilmente non ne avrete però colto le proporzioni perchè, lunghi dell'essere tributo a Karate o Long Fin Killie, il jazz/post rock messo in scena in questi sette brani è quanto di più trasognato, lunare ed eburneo si potesse sentire da anni a questa parte. Canzoni molto lunghe, quasi tutte sopra i nove minuti, con una ("Lands End") che sfiora gli undici, eppure "monolitico" è uno degli ultimissimi aggettivi che utilizzerei per descrivere questo tipo di suono, placido e tranquillo nel suo scorrere lungo una strada di pura, desertica, estatica emozione cromatica. Un elemento, giusto per mettere la ciliegina sulla torta, che stronca ogni inutile solipsismo: anche il più piccolo passaggio è intriso di vibrante tensione, miccia lì lì per deflagrare ma, in realtà, ottimamente contenuta dentro una dimensione cinematica e soffusa dal sapore quasi crepuscolare, sicuramente efficacissima nel rinunciare, almeno per una volta, al gioco piano/forte sul quale il genere sta, ormai, consumandosi.
La vogliamo proprio dire? Ad essere sinceri, è davvero più vivo il piacere di sentire all'opera delicati frammenti blues imporporati di un onirico rossore jazz ("I Had A List And I Lost It", quattro minuti di perfetta sintesi pop) piuttosto che, per dirne una, le nude, lattiginose serpentine di "Golden Sands", luccicante quanto serve ma, nel contempo, episodio più facilmente etichettabile dentro certi confini strumentali. "If Wishes Were Like Horses" e "Floating Truth", da un capo all'altro del disco, sono due cartine al tornasole per i Drift più bifronte che possiate cogliere: l'una orchestrale ed ariosa, segata in due da un impetuoso dialogo fra chitarra e tromba (Miles Davis featuring Godspeed You! Black Emperor?), l'altra disarmante nella sua nudità che la accosta, addirittura, al discreto cool jazz di Koop e F. S. Blumm. Poi, se vi verrà un po' a noia lo swing ambientale di "Smoke Falls", a parere di chi scrive nient'altro che splendido, concentrate tutti i vostri sforzi su un gioiello di inestimabile valore qual è, per l'appunto, "Uncanny Valley". Uno dei miei brani preferiti di tutto il 2008, ed ancora oggi, a quasi due anni di distanza, uno dei miei ascolti prediletti. Stordente, per il modo in cui i vibrati e le maglie psichedeliche della chitarra, che rintoccano cosmici ovunque, vengono trafitti da un apparato di fiati al limite del free, agente perturbante su un muro di suono in scemando, con tanto di finale a fanfara.
Verba volant, scripta manent: "Memory Drawings" è il disco che fa per voi. Qui. Ora.
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