Se si potessero definire tramite equazione matematica, si potrebbe dire che: Sigur Ròs : etere = The End of the Ocean : acqua .
Certo, dal nome del gruppo e dai titoli dati ai singoli brani componenti questo full-lenght, sembrerebbe che i The End of the Ocean abbiano proprio il chiodo fisso per tutto ciò che concerne il mare ed il viaggiare per acqua.
Stolto però sarebbe soffermarsi solamente nella nomenclatura, perché in realtà, questi cinque “marinai” dell’ Ohio ( che poi siano marinai a tutti gli effetti la vedo molto dura, ma non possiedo alcuna conoscenza concernente le biografie dei componenti) hanno di per sé creato, grazie anche alla proposta visiva della copertina, un vero e proprio progetto “concept”, dove il mare e tutto ciò che ad esso potrebbe concernere, ne fa da padrone indiscusso. Di tutto.
Un vero e proprio viaggio per mare potrebbe sembrare dunque l’ ascolto di questo “Pacific•Atlantic” (2011), ricco di bonaccia, tempeste, venti favorevoli e raccoglimenti interiori nello scrutare l’ orizzonte blu ed infinito dell’ oceano a mo’ di “Viandante sul mare di nebbia” del conosciuto Friedrich.
Musicalmente parlando, Pacific•Atlantic potrebbe ricordare, soprattutto nelle situazioni più melodiche e sognanti, le sonorità di “Ett” degli svedesi Ef: introduzioni malinconiche e sognanti che poi, all' improvviso, prendono una piega di positività e speranza grazie a riff di chitarra agili ed esplosivi. Non mancano però sprazzi più audaci di chitarre distorte e pennate veloci, come “May Be for the Better” o brani dolci ed eterei come “To Be Buried and Discovered Again”.
Forse però, a determinare la vittoria di 4 stelle, sono due canzoni in particolare, le più lunghe dell’ intero album ( una decina di minuti a testa): la apripista “On The Long Road Home” e la conclusiva “We Always Think There Is Going to Be More Time...”, ricche di variazioni melodiche e ritmiche a mio avviso ben studiate ed efficaci ad introdurre l’ ascoltatore nell’ opera ( per l’ una) ed abbandonarlo lentamente nel mezzo di una sconfinata distesa d’ acqua ( per l’ altra).
Un buon album, dunque, che però non raggiunge la soglia dell’ eccelso: alcuni brani possono risultare abbastanza ripetitivi ed un pochino noiosi ( se non banali) quali “Verser From Our Captain” o “Southern Skies”. Per non parlare dell’ immancabile ed abusato delay nelle chitarre che, a mio avviso, rende il tutto troppo saturo ad un post-rock che ormai sta portando molti gruppi ad identificarsi “ paro paro” con altri simili.
Alvise - Hellviz
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