Ascoltare Ian MacKaye che a momenti arriva al falsetto, dopo il peso della sua passata esperienza hardcore nei vari e seminali Embrace, Minor Threat e Fugazi (con tutti gli annessi e connessi) è un'esperienza indubbiamente bizzarra ma da fare assolutamente. Ci si cominciava a preoccupare (e ci si preoccupa tutt'ora, a dirla tutta) per l'esistenza dei Fugazi, quella "pausa di riflessione" tanto decantata dalla band sa sempre più di scioglimento silenzioso, quasi si trattasse di una di quelle band che scompaiono nel nulla dopo averci provato con il successo. Quindi, con Guy Picciotto che fa il produttore per i Blonde Redhead, tanto per citare un nome, Joe Lally che pubblica il suo primo album solista ("There To Here", scuro e minimale) e lo strabiliante Brendan Canty che si da al film making, alla produzione e alla vita in santa pace con la sua famiglia, c'è parecchio di che preoccuparsi, e se devo essere onesto fino in fondo, "Get Evens" non placherà in nessun modo la vostra-nostra voglia di Fugazi. Certo, fare paragoni con il passato può portare a giudizi oltremodo negativi, per cui è meglio giudicare l'album per quello che la band è riuscito a dimostrare piuttosto che per il fardello che si porta inevitabilmente dietro.
Innanzitutto qui non si parla di hardcore, di urla abrasive come cartavetro, di chitarre che ruggiscono e sezioni ritmiche che martellano. Non se ne parla semplicemente perchè il sound è molto più scarno e minimale: MacKaye lascia da parte le distorsioni in favore della sua chitarra baritono, e dietro la batteria siede Amy Farina, la sorella del ben più noto Geoff, che con il suo drumming agile ma mai aggressivo tiene ben lontano il sound dagli estremismi del passato. Quello che colpisce è la rilassatezza della voce di MacKaye, prossima come già detto alla dolcezza del falsetto, e il suo incrociarsi praticamente senza traumi con quella potente ed evocativa della sua compagna musicale. Melodie che hanno un che di beatlesiano, irruenza alternata a malinconia, testi che non hanno dimenticato la rabbia dei Fugazi ma che tuttavia lasciano un po' di spazio all'intimismo: ecco gli ingredienti della proposta Evens, che dalla triste opener "Cut From The Cloth" alla sarcastica conclusione di "Dinner With The President", rimane pressochè inalternata. Proprio in "Cut From The Cloth" si profila il tono politico dell'album: "why would they vote in favor of their own defeat?" si chiedono MacKaye e Farina, e il tono sa di sconfitta e rassegnazione. Ma in "Everybody Knows" il sound "rockeggiante" contrasta con la voce suadente di MacKaye prima che esploda (con le dovute proporzioni) in un ritornello epico e accusatorio (ovviamente rivolto a Georgino): "everybody knows you're a liar". "Cache Is Empty" parte addirittura funky-tribale, e diventa subito una delle migliori dell'album, con il suo riff ipnotico di basso, il suo ritmo marziale, e quell'improbabile MacKaye che sussurra "if you ignore your heart things will fall apart". In "Pushed Against The Wall" (ancora cantata dalla Farina) sembra di ascoltare i White Stripes privati di amplificatori e distorsori, oltrechè della loro ironia e della loro spocchiosa coolness, semmai introversi e malinconici, appena più ruggenti nel ritornello quasi urlato da MacKaye.
Il resto fa la spola tra questi due umori, quello dimesso/malinconico di "Cut From The Cloth" e quello più movimentato e combattivo di "Everybody Knows", con un'ottima eccezione: quella "Eventually" che sa quasi di trip-hop "artigianale", da garage, che suona come se i Portishead (data la voce femminile) si spogliassero della loro ombrosa elettronica in cambio di una chitarra (che fa da basso ipnotico e ossessivo) e una batteria. Dopo la già citata "Dinner With The President" l'album si chiude, con ottime sensazioni e con una certa sensazione di ripetitività, nonostante la facilità con cui MacKaye e Farina intrecciano le loro linee vocali e snocciolano probabilmente le melodie più pop mai uscite da un album prodotto da casa Dischord. L'ossessiva essenzialità della strumentazione, probabilmente, rende il sound un po' statico, e anche se un sinfonismo tanto pomposo quanto fuori luogo non avrebbe certo giovato alla loro causa, le canzoni avrebbero potuto beneficiare di qualche piccolo accorgimento qua e là, un pianoforte, un campionamento, ma tant'è: il risultato è ottimo lo stesso. Beninteso, per fare un "Repeater" ci vogliono chissà quanti "Get Evens", ma una possibilità non va negata a quello che è un prodotto che soffre inevitabilmente del paragone con il passato. Se siete in pena come me per i Fugazi, ripeto, quest'album non vi farà passare l'angoscia, non può essere così. Per cui ascoltatelo, e non pensate a ciò che è venuto prima. Pensate soltanto che Ian MacKaye non è per nulla tranquillo, non fatevi ingannare dalla sua voce, e soprattutto che non si è (ancora) rincoglionito. Speriamo.
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