Sarà la debolezza in autostima? No, Mark E. Smith è uno che recita bene il suo copione esistenziale. Ed artistico. In tutti i suoi sproloqui impudenti. Che si tratti di protesta sociale, politica o del racconto di una sua ossessione.

I frequenti cambi di line-up, non meno che quelli di moglie, avvalorano l’immagine del despota.

Il suono dei The Fall è cupo, sbieco, aggressivo, sincopato, allucinatorio, schizofrenico.

I riferimenti sono Captain Beefheart, Velvet Underground e Can (Mark Edward canterà perfino “I Am Damo Suzuki”). E del Brit-Punk fanno Post Punk quintessenziale. Ma tutto è eccentricamente smithiano. In un certo senso, si occupano allora di violenza intellettuale. Con la voce del leader ineducata e caustica, che per metà canta e per metà recita o sparla, sempre uguale, sempre diversa. Confidando nell’espressionismo dei versi, chiaramente ermetici. Improperi, esternazioni, malinconia latente, cantilene sopra le righe, flussi di coscienza ove ogni logica è incostante, instabile, ed, in definitiva, superflua. Un po’ d’irritazione, un po’ di decadenza. Ecco la ricetta base.

Dalla fine degli anni ‘90 la Cog Sinister ha inflazionato il mercato con pubblicazioni di concerti e di raccolte. Certo, questo “Live on Air in Melburne”, del 1982, alle stampe nel 1998, li coglie in uno stato di grazia, in una stagione gloriosa. Infatti, dopo l’onorevole debutto, “Live at the Witch Trials”, era arrivato un trittico da studio davvero eclatante: “Dragnet”, “Grotesque” ed “Hexen Enduction Hour”.

Se la qualità audio del concerto en plein air a Melbourne non è delle peggiori, vince almeno il confronto con “Still” dei Joy Division e l’attitudine lo-fi comunque gli si addice, va ricordato come i Live Act dei The Fall, all’epoca, fossero veramente spiazzanti per la costante presenza, in scaletta, di materiali inediti, frutto di gravidanze isteriche e, non si sa quanto, estemporanee.

Il basso è il marchio più indelebile del tempo. La batteria è incalzante o poco invadente. La chitarra ispida e farraginosa, sovraccarica di feedback. Le tastiere minimali. Il non-canto di Smith si arricchisce di versi onomatopeici, di coloriture sociopatiche, di pensieri ovattati (come prigionieri nella mente, ma urlanti), di ironia sprezzante e patologica.

Nel doppio CD si esaltano le nebbie e le uggie di “I Feel Voxish”, “Marquis Cha Cha”, “Hip Priest” e del manifesto “Totally Wired”.

Ma, poi, c’è questa canzone: “Hard Life in the Country”, che verrà incisa ufficialmente in “Room to Live: Undilutable Slang Truth”, commercializzato soltanto nel 1985.

Se dico un gruppo del post punk penso immediatamente ai Joy Division. È logica matematica. E se penso una sola canzone del post punk? È “Hard life In The Country”.

Suono fosco, scuro, che tende alla quiescenza, ma è buio. O meglio, mostra un’apertura, ma poi la nasconde. Subito. Si alza, verso la vita... con un sussulto. Anela al concedersi un’esistenza e, forse, felice. Poi si inabissa. Quel basso incredibile, pulsante, si ritira, in una spirale, compie cerchi concentrici; un andirivieni di onde che si increspano su una superficie d’acqua stagnante. Ritornano su se stesse. Andar ciclico che si protrae, ubriacante come le immagini sollevate dalle parole del componimento. Per sette minuti... Non succede niente, si barcolla, si cade, si rimane in piedi.

Il riff di basso di Marc Riley trascina con sé tutto questo movimento. Detta, scandisce. La batteria di Paul Hanley è saltuaria, accennata soltanto. La chitarra di Arthur Kadmon, coautore del brano, scandaglia un’armonia impossibile, tagliuzzando, nei profluvi di feedback.

Perfetta, meravigliosa, stupenda.

Una spinta emotiva che ha del suggestivo.

Detto della Copertina orribile, ottenuta da strappi di locandine australiane, detto che “The Fall” fa pensare a fall-ocrazia (ci sta nell’armamentario poetico di Mark E. Smith) e fall-acia (che invece ne esula), ricordiamo quanto sia cresciuta l’autostima della band di Manchester grazie a John Peel. Trentadue session! Più di ogni altro. Ipse dixit: «Seguitano ad essere il metro con cui devono venire giudicate tutte le altre band!».

Ho provato a tradurre “Hard life In The Country”:

È difficile vivere in campagna

Nel presente stato di cose

Il tuo corpo cade all’indietro

Hai un disperato bisogno di bere

Alle tre del pomeriggio

La gente ritira il bastone

La polizia locale ti alza il naso

E le suole in pelle restano appiccicate all’acciottolato di pietra

È difficile vivere in campagna

In una cerchia delicatissima

Con ninfette “new romantic” arrivate dalle colline

È una cosa un po’ deprimente

Il giornale locale grida allo scandalo, all’ubriaco

Pubblica anche il tuo indirizzo

La gente del posto circonda la tua casa

Vecchie signore confiscano il tuo cancello e l’inferriata di recinzione

Per promuovere campagne governative

È dura nel paese d'origine

I consigli comunali si disputano il confine

Il sosia di D. Bowie amplia i parcheggi auto

Accaparrati le chiese quando puoi

Gabinetti, cabine gialle da porte metodiste

Nuovi parcheggi auto in New Jersey

sparpagliati dal solito sosia di D. Bowie

È bello vivere nel paese

Si può arrivare al vero pensiero

Vai in giro, guardati attorno e osserva il disegno geometrico

Il mantellino dei porcospini puntellato intorno alle suole delle tue scarpe di cuoio

Cadi ubriaco sulla strada

È bello vivere in campagna

Vediti come un uomo

Gli anelli stradali della valle attraversati dai furgoni del gelato

È bello vivere in campagna

Le suole di cuoio si appiccicano alla pavimentazione prefabbricata

I piccoli centri delle città americane sembrano la periferia del tuo paese

Gli abitanti del villaggio

Stanno circondano la tua casa

La polizia locale è venuta a fare il suo dovere

È difficile vivere in campagna.

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