Fratello e sorella? Marito e moglie? O magari cugini fra di loro?

No, non preoccupatevi: non stiamo parlando nè di "popopopo" nè di "pepepepe" e tantomeno di Mondiali di calcio, nulla che possa riguardare insomma Meg e Jack White, gli White Stripes. Si sta invece citando il mistero che riguarda la (presunta?) parentela fra Eleanor e Matt Friedberger. Sì, lo so: molti di voi si staranno chiedendo: "Ma chi sono?". Ebbene, forse la vostra mente si illuminerà al sentire pronunciare questi due vocaboli: Fiery Furnaces (con o senza articolo).

All'anagrafe, Eleanor e Matt Friedberger sono fratello e sorella. Ma, se viene davvero confermato il detto secondo il quale la musica ha, tra le altre funzioni, quella di rispecchiare la nostra anima, si può decidere di credere al duo (e ai dipendenti statali), come anche no. Un'avventura iniziata come quasi sempre accade, praticamente per caso: un'odissea che trova il suo inizio allo svoltare pagina del vecchio millennio, nel lontano 2000. I ragazzi, nati e cresciuti a Chicago, si trasferiscono a New York nel 1998: l'idea di suonare assieme prende sempre più piede e, da ambizione fumosa, da bruma insensata, diventa col passare del tempo realtà. La gente comincia ad accorgersi di loro: ad aprire i concerti di Kills e Sleater-Kinney ci sono quasi sempre i Nostri, Eleanor con frangetta ed aria sbarazzina, Matt con sguardo fisso ed ampio sorriso. La voce, la mente: Matt compone, unisce, distorce, accompagna, inventa, per poi lasciare il frutto del suo lavoro all'ugola cristallina e spensierata della sorellina, capace di evocare atmosfere fiabesche quanto di allietare pomeriggi torridi o turni d'ufficio pesanti. Ma uno è il completamento dell'altro: non ci sarebbero Fiery Furnaces nè senza Matt, nè senza Eleanor. Dicono si chiami simbiosi.

Dopo varie comparsate qua e là, nel 2003 i Fiery Furnaces decidono di dare alle stampe il primo album della loro- per ora- prolificissima carriera (ben cinque lavori, quattro album ed un EP, in appena tre anni), "Gallowbird's Bark" per l'appunto. La critica esplode di gioia: su tutti i giornali, il suddetto compact disc è incensato con oro, incenso e mirra, alla faccia di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Su ogni quotidiano del settore, i Fiery Furnaces vengono eletti a nuovi salvatori della patria e il loro album viene eletto a capolavoro. Ma, questa volta, l'entusiasmo dei critici si può definire- anche se impersonalmente- cosmico: tralasciando la qualità musicale (di cui discorreremo comunque fra poco), i due hanno avuto il tempo per piazzare l'enormità (ai nostri tempi) di sedici pezzi, tutti ottimamente arrangiati e prodotti. Vediamo ora nel dettaglio ciò che offre il cd.

"Gallowbird's Bark" si apre con "South Is Only A Home": incipit graffiante, in stile garage, con riff leggermente acidi, xilofono in sottofondo, e la voce della Friedberger che dona al pezzo un'atmosfera blueseggiante, recante evidenti tracce del maestro Bob Dylan. Si prosegue con le sonorità country di "I'm Gonna Run": una canzone con la C maiuscola, con Matt Friedberger che sfodera alcuni accordi sporchi al punto giusto mentre sua sorella si adatta al contesto alternando parlato (ritornello) e cantato (strofe). "Leaky Tunnel", la traccia successiva, sorprende ancora: contaminazioni elettroniche, synth che spuntano come funghi, pianoforte inquietante che dona un tocco oscuro alle strofe cantate da Eleanor. E' forse un'illusione? In parte sì: il ritornello è molto più aperto, con accenni di old style rock. La quarta canzone è "Up In The North", una cantilena resa sghemba dall'intervento di Matt, che sporca leggermente l'intonazione innocente della compare con la sua sei corde (spesso in procinto di esplosione, ovviamente impressione ingannevole). La quinta composizione, "Inca Rag/Name Game", registra un altro cambio di sonorità, con l'intervento vocale, leggermente sottotono, di Friedberger (questa volta seduto di fronte ad un pianoforte, intento a comporre per l'adorata sorellina). Un pezzo permeato di ingenuità e buone intenzioni, aldilà dell'ottima fattura compositiva.
"Ashtma Attack"
è invece un pezzo nervoso, dalla discreta velocità, che riporta alla memoria i vecchi bluesman antecedenti al Grande Conflitto: ancora una volta, una perla pregevole, posta tra l'altro in una felice posizione (suggermento discografico?). Via con "Don't Dance Her Down": ancora campionamenti elettronici, una maggiore presenza vocale di Eleanor (rimarcata con leggerezza successivamente), un pavimento di riff ispirati allo stile dei migliori Who, un pianoforte che fa capolino saltuariamente, accompagnato da alcuni RNI (Rumorini Non Identificabili). Ed è il turno del primo singolo estratto, "Crystal Clear": un'atmosfera pesante grava sulla scena, allietata solo dalla presenza vocale dell'onnipresente Eleanor, accompagnata una volta dalla chitarra, un'altra volta dal pianoforte, altre volte ancora da improvvisi scampanellìi. Si ritorna nelle terre dei cow boy con "Two Fat Feet": l'amore di Matt per i Sixties è innegabile, e lui, a questo punto, non fa nemmeno più di tanto per nasconderlo. Gradevolissimo pezzo, che osserva una deliziosa contrapposizione fra la voce candida della Friedberger e i riff maledettamente rock del fratello. E' lasciato ora spazio a "Bow Wow", una canzone abbastanza tranquilla, con il pianoforte che spadroneggia dall'alto della sua freschezza sonora, ed il ritornello a due, in una miscela ruvido-cristallina. E se "Bow Wow" aveva solo riconfermato l'ottima alchimia fra il duo, senza aggiungere particolari novità, "Gale Blow" si apre con un campionamento di jodel, accompagnato da rapidi e fugaci interventi di chitarra e tastiera. Quello che fa spuntare un sorrisone sul viso è in realtà la presenza di un altro suono caratteristico dell'alta montagna: il campanaccio, che ricorre metricamente in strofe e ritornello.
Diametralmente opposta è "Worry Worry": atmosfere più cupe, senza eccessivi cedimenti, riff più veloci, batteria più presente. Un pezzo che nell'era Beatles non avrebbe di certo sfigurato: ed oggi, a quarant'anni di distanza, fa ancora un'ottima figura. Dopo un mezzo passo falso da parte dei Friedberger ("Bright Blue Tie", un po' atipica ed insapore nella sua semplicità forzata), arriva uno dei pezzi migliori del disco, l'ossimoro di "Tropical Iceland". Ed ora, si capisce da dove tirino ispirazione complessi come Spinto Band o collettivi come I'm From Barcelona: incipit in simil-muggito, con un delizioso arpeggio di chitarra accompagnato da solari cinguettìi, svolgimento meravigliosamente infantile, sorretto pienamente dalla voce di Eleanor e dagli effetti collaterali cinguettanti provenienti dalla tastiera di Matt. A metà canzone Eleanor s'interrompe brevemente per dare ancora un breve lustro al geniale arpeggio iniziale. E la chiusura è degna di un vero capolavoro: dopo il blues sanguigno di "Rub/Alcohol Blues" (a mio avviso, il pezzo migliore del disco), arriva "We Got Back The Plague", una cavalcata a metà strada fra folk, country e blues, estremamente semplice nella struttura quanto geniale in alcuni inserimenti (lo schioccare di fruste e il rumore di ruote di carri su una strada scoscesa).

Per concludere: grandissimo disco, sotto ogni punto di vista; dell'originalità, della composizione, della qualità sonora. Promosso in ogni ambito, insomma. E non certo un disco isolato nella carriera del duo newyorchese: dopo questo, arriverà il turno di "Blueberry Boat" (2004), ci sarà spazio per l'incredibile "Rehearsing My Choir" (2005), seguito dal cuginetto "Bitter Tea" (2006). Cuginetti, un po' come Eleanor e Matt Friedberger. Ma non erano fratello e sorella? Non importa: lunga vita ai Fiery Furnaces. Requiem.

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