Le radici e le ali.

Ardua impresa raccontare questo disco senza inciampare nella retorica; ma la retorica in certi casi non è inutile e neppure banale, anzi è indispensabile per dire di un'opera fondamentale nella storia culturale di un Paese.

Saranno vent'anni che non lo ascolto, «Le Radici E Le Ali»; ma giovedì sera, accecato dalla pazza idea di buttare giù due righe per DeBaser, lo tiro fuori dalla discoteca.

Vent'anni passano lentamente, anche se non servono a cancellare alcuni ricordi dalla memoria – tipo che nel 1991 non lo apprezzo a dovere, perché troppo netto e repentino è il cambio di marcia rispetto a «Tribe's Union» e «Barricada Ruble Beat»; e va bene che «Reds» in qualche modo lo annuncia, quel cambiamento, ma a vent'anni cosa vuoi presagire la transizione dal militante combat-rock che mi illude di vivere l'epopea clashiana ad un suono di cui nemmeno sospetto l'esistenza e che è (sembra) un fuoco di paglia, raffrontato ai pugni chiusi contro il cielo che accompagnano gli sfoghi liberatori di «Libre El Salvador» e «Rumble Beat»; cioè, dov'è finito il gruppo che gira l'Italia con Billy “Guitar” Bragg e, alla fine, tutti insieme sul palco ad urlare «Garageland» e «I Fought The Law»?

Sennonché, sfilando il vinile, piovono fuori ritagli di riviste dell'epoca: pagine di Rockerilla e del Mucchio Selvaggio dedicate a «Storie D'Italia7 e, soprattutto, un intervento di Marino sulle pagine de I Giorni Cantati, unico numero comprato in vita mia, solo ed esclusivamente per conservare quelle due paginette in cui si discetta del disco della svolta, ne sono sicuro, e magari farmi un'idea che mi orienti.

Ne vengono fuori radici come trincee per resistere; radici come barricate da ricostruire continuamente; radici per avere legami con la propria terra; radici come uno scoglio dove aggrapparsi; e radici per invertire il corso del fiume. E radici che hanno bisogno di ali perché «... un momento come quello che stiamo vivendo non può essere affrontato senza un rinnovamento degli strumenti culturali, tradizionali o inventati ...».

Non ricordo se nel '91 ho letto queste righe, ma pure se l'ho fatto di certo non ne ho capito il senso.

Oggi va meglio.

Per cui, rinfrancato, leggo anche l'intervento di Alessandro Portelli che ricambia la cortesia di Marino e dedica alcuni pensieri stampati sull'involucro interno del vinile: questi, mi ci gioco il disco, all'epoca non li ho proprio compresi, troppo alti e pregni di cultura popolare.

Oggi sottoscrivo in toto, a dimostrazione che niente, nemmeno il tempo, passa mai invano.

Dice, Alessandro, che «Le Radici E Le Ali» è un disco fondamentale nella storia della musica popolare italiana perché prima c'erano solo le ali. I Gang ci hanno messo le radici: perché negli Stati Uniti hanno Woody Guthrie ed Hank Williams, e noi abbiamo le fisarmoniche e le bande di paese che marciano oltre.

Allora Marino e Sandro «... hanno preso gli ingredienti della nostra storia, li hanno rifusi e stravolti per capirli davvero e farli rinascere, e fare con i vecchi discorsi un discorso nuovo, e fare con i discorsi nuovi un discorso senza tempo ...».

Come i banditi, che non sono tutti galantuomini, ma alcuni sono proprio come quelli che popolano le storie di note di Woody ed Hank; e sono nostri, sono la nostra storia in carne ed ossa, ed ognuno ha la Storia ed i banditi che si merita. E se per Woody la chitarra è una carabina che fa fuori i fascisti, i Gang trasformano la carabina in una Magnum Les Paul che spara «I Fought The Law» e raffiche di altre canzoni che fanno male.

Miglior viatico all'ascolto non ci può essere, per cui inizio il viaggio.

Ed il viaggio parte da una data remota ed un luogo definito: 1° maggio 1991, sono a Roma, a Piazza San Giovanni, per partecipare al concerto organizzato dai sindacati.

La memoria talvolta vacilla, ma ricordo perfettamente che nel tardo pomeriggio i Gang si affacciano sul palco; in diretta televisiva, inconsapevolmente ripreso dalle telecamere di Mamma Rai, Marino legge un breve comunicato dove incita i lavoratori allo sciopero generale; poi annuncia il cambio di programma e tutto il gruppo attacca a razzo «Socialdemocrazia» invece di «Ombre Rosse». Per cui «Benvenuti a terra con un foglio di via nel paradiso Socialdemocrazia. Qui niente più scioperi né opposizione, tutti d'accordo superproduzione. Terra di eroi e santi senza peccato, di mafia, P2 e stragi di Stato. Il futuro non è ancora scritto, ci saranno guai.».

Un pugno in faccia ed un calcio in culo, anche per gli spettatori in piazza (e pure per quelli in pantofole davanti alla tv), disabituati a cotanta irruenza musicale ed alle invettive verbali; e però basta un nonnulla per scuotersi dal torpore, per cui mi slancio con entusiasmo giovanile nel pogo che accompagna l'esibizione della Gang.

Conclusa, Marino saluta tutti con l'incitamento «Ciao Roma, la lotta continua.».

I papaveri RAI, notoriamente poveri di spirito, non la prendono granché bene, e per i Gang si prefigura all'orizzonte una specie di editto romano che li spedisce al confino, ben oltre Eboli. Poi, siccome nulla passa mai invano, nemmeno il tempo, alla RAI si fanno scaltri e nel retropalco di Piazza San Giovanni piazzano in pianta stabile un pacioso mollicone, casomai a qualcuno venisse la balzana idea di dedicare una canzone d'amore al divo Giulio.

Così ho approcciato «Le radici e le ali».

La genesi del disco risale al 1990, quando i Gang partecipano ad una compilation titolata «Union», nella quale si chiamano a raccolta le migliori leve del rock tricolore, per fare il punto della situazione; i nostri decidono di rifare «Musica Ribelle» di Eugenio Finardi e per la prima volta cantano in italiano, e decidono in quella sede che non è più il caso di tornare indietro.

«Le radici e le ali» non è un disco facile; gli interminabili tempi lavorazione e registrazione in due distinti studi, a Milano prima e poi a Bologna; i testi, densi di riferimenti alla realtà politica e sociale, sanguigni e, a modo loro, violenti.

Ma loro non scendono a compromessi con la casa discografica, ottenendo carta bianca su come muoversi, cosa scrivere, chi attaccare.

La coerenza, l'impegno sociale, la libertà sono da sempre i tratti esemplari dei Gang: un fiero orgoglio. Del resto, «The Gang Is Not For Sale» – la Gang non è in vendita – è il loro biglietto da visita sin dai tempi di «Barricada Rumble Beat».

Il cantato in italiano li espone ancor di più, senza la barriera della lingua inglese a velarne gli intenti e separarli dal pubblico. Per ridurre ancora le distanze, Marino e Sandro ampliano il loro approccio musicale, optando per un combat-folk terzomondista (come si dice allora) piuttosto che globale, in cui innestano violini, fisarmoniche e strumenti e canti tradizionali.

Il titolo dell'opera è emblematico e dice a chiare lettere dove vogliono arrivare, i Gang; la copertina, splendida, regala l'immagine di un'Italia rovesciata, dove il sud della penisola e del mondo risalta in primo piano.

Il disco vuole essere, riuscendoci appieno, un viaggio nel Sud dimenticato, oppresso, povero; che sia la Basilicata o la Palestina, l'oblìo, l'oppressione e la povertà hanno lo stesso volto in ogni dove. Ed ecco allora, in «Bandito senza tempo», l'America Latina e le atmosfere pacate che rammentanmo gli Inti Illimani; ecco «Johnny Lo Zingaro» e le sue calde trame reggae, pronte ad esplodere in un finale barricadero, dove si distingue il suono del violino di Mauro Pagani; storie di personaggi “contro”, come nel tex-mex «Chico Mendes»; la partecipazione di una banda paesana in «Oltre», una polka che non sfigurerebbe in un qualche film di felliniana memoria; e alla fine, il brano che dà il titolo all'opera, introdotto dalle voci di Che Guevara, Yasser Arafat e Nelson Mandela, splendida ballata dall'agreste sapore di rivoluzione, un viaggio dagli Appennini alle Ande.

Con un pizzico di retorica, né inutile né banale, «Le Radici E Le Ali» è un disco epocale e coraggioso che ha indicato un percorso da seguire, non solo in Italia: aggressivo, feroce in alcuni momenti; ma capace di emozionare e commuovere, come poche altre opere uscite in quel frangente; un'esperienza non solo musicale, che non si dimentica. Da consegnare alle generazioni future.

E poi, l'anno successivo arriva «Storie D'Italia», con i Gang a mettere in musica cinquant'anni di storia italiana ed a volare ancora più in alto: le radici hanno attecchito nel profondo e le ali sono spiegate, per l'appunto.

L'Imbrecciata Filottrano caput mundi.

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