Direte: ma già esiste una recensione di due anni fa! Ecchisenefrega! Non permetto a nessun altro di "vantare diritti" su quello che considero il vinile più prezioso della mia discografia, con quella copertina intrisa di una strana luce apocalittica verde acido, la mano che tiene una collana con una croce che si staglia davanti alle palme di Miami.

Jeffrey Lee Pierce, il classico loser americano, con quella voce troppo grande per la sua minuta statura, con il cuore troppo debole per reggere ad una vita fatta di abusi e di stenti (non avrà nemmeno i soldi per pagarsi le cure mediche).

Da ragazzo scopre il blues, Howlin' Wolf e via per il grande fiume Mississipi: Robert Johnson e Charlie Patton. Si sposta a Los Angeles ed è fulminato sulla via di Damasco: la vivace scena punk della città si mescola pericolosamente con la sua formazione musicale dando vita a quello strano miscuglio fatto di blues suonati in modo oltraggiosamente veloce, resi stralunati dalla voce felina del nostro (qualcuno ha detto nata da un sexy partouze tra Iggy Pop, Lou Reed e Jim Morrison) e dalla slide di Ward Dotson. Nell'81 nasce "Fire of Love" con gli anthem "She's Like Heroin to Me", "Sexbeat", e addirittura la versione punk a velocità folle di "Preachin the Blues" di Robert Johnson !

L'anno dopo questo selvaggio e istintivo disco costato appena 2000 dollari nasce un progetto diverso, meno aggressivo e più maturo: "Miami". Di blues ce ne è di meno, la velocità rallenta, la voce diventa ancora più suadente, felina, flautata come quella di uno strano uccello tropicale nascosto nelle paludi lussureggianti e malsane invase dai coccodrilli di questo lembo della Florida.

Una ballata che sa di country come "Carry home" apre il disco, Jeffrey dispiega il suo canto lugubre che si perde nella notte stellata: "sono tornato/ attraverso mille autostrade/ e tante lacrime". Gli altri strumenti aspettano che finisca la sua nenia per creargli un tappeto sonoro con la slide che accompagna il dispiegarsi della voce... porca miseria! Quest'uomo ti tranquillizza e ti mette i brividi allo stesso tempo.
Ancora inizio pseudocountry per "Like Calling Up Thunder" e poi inizia il pogo: "sto chiamando il tuono/ con le mani rivolte al cielo" invoca Jeffrey che nella successiva "Brother and sister" fa rabbrividire ancora con il tono cupo della voce che evoca gli scheletri dei propri peccati nascosti negli alberi della notte buia.

La cover di "Run Through the Jungle" dei Creedence (altro vecchio amore di Jeffrey) ha un testo diverso dall'originale e qui impazza la chitarra di Ward Dotson: "play the guitar, move!" lo incalza Jeffrey. Nei brani come "Devil in the Woods", "Bad Indian" e "Sleeeping in the Blood City" rinverdisce il fresco mito dei pezzi iperveloci del primo disco, mentre altre composizioni come "Texas Serenade" sono ballate elettriche o addirittura intrise di country selvaggio come la macabra storia di "John Hardy", un impiegato della linea ferroviaria impiccato per l'omicidio di un uomo.

La conclusiva "Mother Heart" è puro country & western velato di malinconia dagli affondi della slide: "Madre Terra il vento è caldo/ ho tentato di fare del mio meglio/ ma ho fallito"

Un disco epocale.

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