Fracassoni, gigioni e casinisti, molto in forma e con una sana voglia di timbrare il cartellino e - il cantante - anche di chiacchierare (persino un po' troppo - madonna, quanto ha parlato...), sabato sera scorso gli Hives hanno roccato e rollato l'Alcatraz per la gioia di un sacco di gente che al Rolling Stone originariamente previsto non ci sarebbe stata e che lì invece si è scatenata in una bolgia che ha accompagnato i nordici bianchi e neri dall'inizio alla fine. Onesti e precisi, sempre tirati, anche se a onor del vero non ho ravvisato tecnicismi esasperati da virtuosi che richiedano inversimile impegno nel loro sanguigno punk 'n' roll, hanno pestato tutti alla grande; il frontman ha evidenziato qualche difficoltà quando non c'era da fare quello che gli riesce meglio cioè a) urlare b) imbonire di cazzate il pubblico, ma se la sono cavata comunque egregiamente, sgusciando dai loro bei completini neri con risvolti bianchi e restando sudati da spremere in camicia. Preceduti dai pesantucci e mascherati Henry Fiat's qualchecosa che dal vivo sembra quasi che vogliano fare hardcore, gli Hives hanno triturato 78 minuti della loro miglior musica: punketto rumoroso e tonico, ultravivace ma nonviolento, direi quasi à la page; hanno presentato quasi tutto l'ultimo album più qualche vecchio cavallo di battaglia (x es. "A little more for a little you") e così il pubblico ha scalciato, pogato e sudato con loro e se ne è andato via contento. Mi sento musicalmente più ricco dopo questo concerto? No, perché alla fine ho deciso che sono un po' plasticosi e non mi piacciono così tanto, ma per venti euro oggigiorno che cosa vuoi di più dalla vita?
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