Tutte le grandi squadre, inesorabilmente, finiscono per patire delle sonore sconfitte da formazioni molto meno blasonate ("Clamoroso al Cibali!"). Capitò anche a Londra nell'ormai lontano campionato di musica pop del 1986: London 0 - Hull 4. A chi non ha buona memoria o solo un'età troppo verde un risultato così netto, per di più in trasferta, potrà apparire esagerato, frutto di certo di fortuite ed irripetibili circostanze; ed invece i quattro gol rifilati dalla matricola terribile Hull alla spocchiosa Capitale anglosassone sono tutti meritati e frutto di un gioco frizzante e spettacolare. Gli artefici di questa insperata e memorabile impresa furono gli Housemartins, pop-band composta da quattro giovanissimi, Paul Heaton, Norman Cook, Stan Cullimore, Hugh Whitaker, quest'ultimo sostituito alla batteria dopo appena un anno da Dave Hemingway.
La strategia tattica che consentì ai giovanotti di pervenire all'insperata vittoria è presto detta: una vena pop tanto "leggera" quanto intelligente, che affondava le radici nella migliore tradizione anglosassone, corpose influenze Soul e R&B (non a caso il loro maggior successo commerciale è stato un brano a cappella, "Caravan of Love"), testi forse un po' ingenui, ma che apparivano sinceri, ironici, non di rado anche "impegnati", che lasciavano intuire un'adesione ad un socialismo internazionalista, umanitario e pacifista. Nessun album può rappresentare in modo esauriente la temperie di un decennio, figurarsi poi di anni così complicati e sfaccettati quali sono gli ‘80, ma è indubbio che questo primo album degli Housemartins riescì a cogliere un modo di essere di una parte non trascurabile della gioventù di quell'epoca; giovani che non credevano più alle rivoluzioni, disillusi certo, ma non cinici; anzi, fortemente critici verso la realtà sociale e politica di quel periodo di liberismo thatcheriano, di edonismo reaganiano, di yuppismo amorale, che reagivano proponendo non più utopistiche alternative, ma una maggiore solidarietà, giustizia sociale ed un impegno fattivo per questi valori.
Dal punto di vista musicale un certo techno-pop, che all'epoca andava per la maggiore, viene indirettamente preso di mira con la scelta di affidarsi a pochi strumenti classsici e a degli impasti vocali old style. Un'operazione di rivisitazione critica della tradizione pop anglo-americana molto simile nelle finalità a quella di gruppi come gli Style Council o i Working Week, ma con esiti più immediati, ritmati ed omogenei. Rimanere fermi ascoltando canzoni pop/beat così fragranti, ritmate, solari come "Sitting On A Fence", "Happy Hour" o "Sheep" è praticamente impossibile. Così come non è facile indovinare che il tipo che canta e suona il piano in "Flag Day" o nella "nerissima" "Leon On Me" è un viso pallido della profonda provincia inglese e non un pastore battista di una chiesa di Harlem. Però, nonostante questi brillanti risultati, la carriera dei nostri eroi fu molto breve, purtroppo.
Pare infatti che avessero come obiettivo, all'epoca della costituzione della band, di divenire famosi entro tre anni e, raggiunto il non facile traguardo, coerentemente decisero di sciogliersi nell'88, dopo aver pubblicato questo scoppiettante album d'esordio, un secondo lavoro quasi altrettanto valido, "The People Who Grinned Themselves To Death e un finale doppio antologico, intitolato "Now That's What I Call Quite Good", comprendente, oltre ai 45 giri, facciate B e BBC sessions. Tutti i componenti della band continueranno così con alterne fortune la loro carriera artistica in nuovi gruppi o intraprendendo carriere soliste; ricordiamo per brevità solo i Beautiful South di "ugola d'oro" Heaton e Hemingway, che negli anni ‘90 raggiunsero anche le vette delle charts inglesi, e l'impensabile trasformazione di Norman Cook in quel genio minore della dance che va sotto il nome di FatBoy Slim; forse però nessuno di loro è più riuscito ripetersi ai livelli di questo Londo 0 - Hull 4, album da annoverare per me tra i migliori debutti pop di sempre, e non solo dei malfamati Eightes.
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