Un artista totale. Un eccentrico, bizzarro e singolare cantautore.
Un artigiano della registrazione mai timoroso di ridicolizzare i cliché blues tramutandoli in grotteschi licks da band dilettantesca.
Due chitarre ed una batteria (il basso? per carità, non sarà presente sino ad "Acme" del 1998), qualche inserto qua e là di fiati e archi (pochissimi per la verità) ed una creatività inesauribile per una vera esplosione di blues!
Jon Spencer è uno degli artisti più moderni ch'io conosca. Capace di essere un po' Jagger, un po' Iggy Pop e un po' Tom Waits ma soprattutto capace di essere sempre se stesso, è artefice del suo meritato successo mescolando talento, intraprendenza e sana irriverenza che non scende mai a meschini compromessi.

Conobbi questo musicista tramite un percorso inconsueto: tutto partì dall'interesse che nutrivo per il gruppo della compagna (l'ammaliante Christina Martinez conosciuta ai tempi della prima band di Jon, i "Pussy Galore", oggi gruppo simbolo dell'underground newyorkese), chiamato "Boss Hog"! Quando parlavo del gruppo tutti gli amici mi ripetevano: "E grazie al c****! Lo sai chi è il chitarrista del gruppo? Quel geniaccio di Jon Spencer!" Io ero solito rispondere: "Ma davvero? Ma pensa! Ecco perchè" pur non sapendo assolutamente chi accidenti fosse sto Spencer, simulando una conoscenza che in verità era completamente assente per non vergognarmi della mia ignoranza.
"Devo decidermi a scoprire Jon Spencer, qua finisce che faccio una figuraccia – pensavo tra me e me – e bisogna che mi sbrighi...". Così arrivai ad "Orange" (disco del 1994), ad "Acme" (1998) e all'ultimo "Plastic Fang" (2002).

In realtà la mia intenzione iniziale era proprio di raccontarvi di "Plastic Fang", ma scrivendo mi sono reso conto che non avrei fatto altro che riferirmi continuamente agli altri due dischi nominati, quindi ho pensato che sarebbe stato molto più istruttivo, nonché razionale, partire da "Orange", disco tanto incredibile quanto piacevole.
"Orange" è tutto quello che deve essere un disco per essere considerato un capolavoro. È assolutamente originale, è trascinante, è pieno zeppo di novità distribuite con intelligenza per tutta la durata del disco (si pensi al duetto tra Beck, ospite nel disco ed amico di Spencer in "Flavour" o allo strumentale che chiude l'opera dal titolo "Greyhound").
Principiando col sottolineare l'assenza assoluta del basso (ma, si badi bene, non del groove, accidenti!), "Orange" è la morte e la rinascita del blues della fine del secolo. Quel ronzio di sottofondo udibile senza fatica, distorsione valvolare e una rinuncia pressoché totale alla post-produzione e al digitale, partoriscono un senso di "live project" di grande energia e fanno venire una gran voglia di imbracciare la propria Strato (leggermente scordata per ottenere quel suono così "sbragato") e imitare tutti i riff del geniale Judah Bauer.
Drum-set ridotto al minimo, credo un "tom" solo, pelli usurate, pochi fronzoli e tanto cuore da parte di Russell Simins: una costante sensazione di manufatto artigiano che non potrà far altro che condurvi all'innamoramento delle 13 tracce (occhio che ne esiste una pregevolissima versione contenente 3 tracce video visualizzabili sul PC) contenute in questa opera eccellente.

D'acchito vi sembrerà forse scarno, ruvido, spigoloso, con un sound forse addirittura troppo "acido", ma quando passeggiando per strada sarete colti da folle raptus che vi obbligherà a urlare "BELLBOTTOMS! BELLBOTTOMS! BELLBOTTOMS!" capirete perché ne sono tanto entusiasta.
Impossibile starne senza, è un disco paradigmatico che permetterà di assorbire (nel mio caso "essere assorbito da") i seguenti lavori dell'incredibile Jon Spencer e di apprezzarne appieno tutte le indubbie qualità del musicista underground più "ground" che ci sia. "Bellbottoms! Bellbottoms, Bellbottoms!"...

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