Un disco archetipico. Chi conosce Jon Spencer e i suoi potrebbe farla finita qui con la lettura, secondo me sarebbe tutto molto chiaro. Niente in controtendenza, stavolta, sulla linea di un rock n' roll fresco e animistico, non dimentico del passato e con lo sguardo al sangue, iniettato di naturalezza, puntato un po' di qui e un po' di lì.  Non guardo la tv canonica ma ieri sera di sfuggita ho visto cinque minuti di un film di Verdone su Rete4: un minuto di storia e quattro di sigla iniziale. Era stupenda, Un quadro fisso zenitale su una porzione di tavolo in legno scuro. Sulla destra un posacenere, al suo interno bruciava lentamente una fotografia. Sulla sinistra i titoli in sequenza. E tu lì schizzare con gli occhi da una parte all'altra, per capire chi c'era dietro quella pellicola che, pur deludendo subito, all'inizio aveva tutta l'aria di un classico italiano o italoamericano, forse di un Leone.

Ecco, la Blues Explosion di questo album scrive secondo le regole di una vecchia grammatica bacchettona e piena del fascino polveroso di chi ne sa davvero, ma utilizza un linguaggio crepitante e strafottente che, però, sembra non voglia mancare di rispetto a nessuno. Da un lato c'è tutto il pericoloso potenziale di una fabbrica di fuochi d'artificio di Gragnano (Na) lasciata in mano a dei bambini piromani, dall'altro c'è un certo zelo padronale, quasi ereditato da un approccio springsteeniano degli albori, o quella serafica scienza della saggezza detenuta dagli anziani del blues

Quindi, siamo proprio ai fattori elementari, al bene e al male, al bianco e al nero. Plastic Fang è un disco che somiglia a un mio amico che fa il muratore, che è capace di non saper parlare bene né il dialetto né l'italiano, che ha la forza contaminata di sesso di un montone sardo senza pecore da qualche anno e che ha la freddezza di prendere sempre le decisioni più giuste e sensate, in qualsiasi frangente, da pater familias. Un disco rozzo, quindi, ma dall'animo buono. Un disco di carattere e di ricerca di suoni più puri e meno istruiti, andando a zonzo a ritroso. Un disco che non fa rivoluzioni e che convince proprio per questo. Una dedica di Spencer ai padri del passato, quasi li volesse incarnare nella nostra epoca i vari Elvis o Buddy Guy. Senza farsi mancare la possibilità di inneggiare all'anarchia più indolente ed immediata, senza grassi concettuali saturi e/o superflui. Sicuramente, un'opera che, come tutte le altre, dal vivo è cherosene che non aspetta altro che il calore incendiario del pubblico che negli anni il nostro è riuscito a meritarsi.

Attenzione al booklet del cd. Sembra tutto d'un pezzo ed eccessivamente sgargiante. Una volta levato il cellophane resta sgargiante ma non tutto d'un pezzo:è multistrato, si sfoglia a mo' di cipolla, quasi volesse agevolarci lungo una strada che porta dritta dritta verso il cuore di un rock radicale, a interessi e compromessi zero.

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