Luci accese su uno dei grandi "cervelli" della nuova musica inglese degli anni '70, profondo teoreta e magistrale esecutore di suoni "diversi", difficili, di indiscussa portata rivoluzionaria. Aveva solo 22 anni, questo giovane e semi-sconosciuto pianista, vorace e maniacale ascoltatore dei dischi di Gil Evans e Charles Mingus (solo per fare due nomi), quando tale Robert Fripp, smanioso di dare immediato seguito ad uno dei più folgoranti esordi nella storia del Rock, lo convocò per le sessions di "In The Wake Of Poseidon"; Keith Tippett rimarrà alla corte del Re Cremisi per soli tre anni, giusto il tempo di consegnare agli archivi (e alla storia) altri due pregevoli album, tappe decisive (e in parte anche sottovalutate), nell'evoluzione di quel suono: "Lizard" e "Islands". A tal proposito, tanti crimsoniani concordano nel pensare a "Lizard" come all'album più complesso, intricato nonché stilisticamente vario del primo periodo del gruppo: e ciò che si ascolta fra i solchi di quell'opera, pesantemente influenzata da Keith Jarrett e dalle nuove sonorità elettriche del più recente Miles Davis, va in larga parte ascritto alla genialità di Tippett, anima Jazz di quei Crimson alla pari di Mel Collins (era il 1970, ma lo sviluppo della chilometrica suite che dava il titolo al disco impressiona e sconvolge ancora oggi); indiscussa è l'alchimia sonora instauratasi all'interno di quella fugace ma storica edizione dei King Crimson, se è vero che Fripp invitò (senza successo, peraltro) Tippett a rimanere nel gruppo in pianta stabile; ma il pianista di Bristol aveva già sviluppato, per conto proprio, una tale personalità artistica da riuscire ad intraprendere, in quegli stessi anni, una brillante carriera solista che in breve gli avrebbe ritagliato un posto d'assoluto prestigio fra l'aristocrazia del nuovo Jazz inglese.
Perché di Jazz parliamo, nonostante l'innegabile familiarità del Nostro con la scena Prog-Rock, e la sua abitudine a frequentare con disinvoltura gli stessi ambienti in cui agivano personalità del livello di Robert Wyatt, Elton Dean e Roy Babbington: tutti jazzisti di formazione, ma artefici di nuove forme di Jazz-Rock che Tippett non condivise "tout court", mantenendo sempre una spiccata propensione per certe soluzioni timbrico-stilistiche peculiari della tradizione jazzistica: fra queste, il diffuso impiego del contrabbasso a scapito del basso elettrico, utilizzato invece con molta parsimonia, e la scarsa, debole presenza della chitarra, che a malapena riesce a ritagliarsi spazi di rilevanza solistica.
Non Jazz-Rock, dunque (essendo la componente Rock estremamente marginale nella musica di Tippett), ma un Jazz in prevalenza acustico e altamente sperimentale, "claustrofobico" a tratti, caratterizzato da grande densità strumentale e da un'ampia libertà accordata all'improvvisazione e alla ricerca. Si è spesso detto che i primi dischi di Tippett, sia con il Keith Tippett Group che con i Centipede, suonino all'ascolto più forti, più rumorosi di quanto non faccia un disco di Jazz classico (di Cool Jazz, ipotizziamo): tale impressione è confermata dalla tendenza, propria dei solisti impiegati, a ricercare un timbro espressivo molto aspro, stridulo a tratti e marcato da certa aggressività nell'approccio esecutivo. Taluni hanno anche utilizzato questo argomento per rivendicare la matrice Jazz-Rock di album come "You Are Here...I Am There", o del qui presente "Dedicated To You", ma a mio avviso ricorrere a simili etichette è del tutto improprio, considerando la significativa distanza stilistica che separa queste opere dai coevi lavori di Soft Machine e Nucleus (benché i musicisti impiegati appartengano in larga misura al giro di queste due formazioni).
Fatta questa opportuna premessa sull'estetica musicale tippettiana nel tentativo di inquadrare l'artista nella posizione che più gli compete, mi accingo a recensire l'album che di tale estetica può considerarsi la massima testimonianza. "Dedicated To You, But You Weren't Listening", pubblicato nel 1971 dalla Vertigo, è album scioccante e suggestivo insieme, a partire da una copertina sulla quale varrà la pena di spendere alcune parole: l'immagine di un feto intento a svilupparsi nel cervello di una donna che sommessamente pronuncia le parole del titolo è qualcosa che si spinge ben al di là della comunque innegabile pregevolezza artistica del disegno; più d'ogni altra cosa, essa costituisce l'immaginata rappresentazione della processualità dell'atto creativo: l'idea musicale (il feto) è concepita dal cervello e da esso viene partorita, tramite la bocca (il più elementare e primitivo strumento attraverso cui produrre suoni) essa viene comunicata e si concreta in una frase, in un messaggio fruibile da parte dell'ascoltatore. E' l'ideale manifesto di un principio di "musica cerebrale", e nondimeno in sintonia con la corporalità, l'emotività da sempre insite nell'atto improvvisativo, che del Jazz costituisce l'essenza. Il titolo dell'album è inoltre ripreso da "Soft Machine Two".
Dieci elementi sono chiamati a comporre l'ensemble incaricato di accompagnare il pianista: fra essi, l'immancabile Robert Wyatt alla batteria, Elton Dean al saxalto, Marc Charig alla tromba, Nick Evans al trombone e Roy Babbington al basso e al contrabbasso. I pezzi proposti sono per la maggior parte molto estesi ("Thoughts To Geoff" supera i dieci minuti, e per giunta viene anche sfumata in chiusura): composizioni dall'architettura preventivamente strutturata si alternano a suggestioni umorali e a momenti di pura, radicale atonalità. Risaltano le grandi qualità di Tippett in veste di arrangiatore della sezione fiati, a conferma di come il suo contributo alla riuscita dell'album non si limiti certo al suo (pur elegante e sfaccettato) tocco pianistico.
E' il sax di Elton Dean ad aprire in grande stile la quasi-Rumba di "This Is What Happens", sostenuta dal drumming incisivo e fantasioso di Robert Wyatt sul tappeto ritmico dei congas di Tony Uta; l'assolo del leader, ad occupare la seconda parte del pezzo, è debitore in egual misura del Blues e di certe linee armoniche latino-americane, ma a sorprendere è anche la tromba di Marc Charig.
Cacofonico e dissonante è invece l'inizio della lunga "Thoughts To Geoff": puro caos "governato" (è un eufemismo) dai mutevoli umori dei musicisti, fino alla risolutiva, perentoria entrata del contrabbasso che dinamizza l'atmosfera arrampicandosi su tortuose scale modali: i fiati espongono il tema all'unisono, prima di tre lunghi assoli eseguiti in successione da Evans, Charig e dallo stesso Tippett; serrato e concitato è l'assolo di piano, eseguito dal leader con stile molto "percussivo", e notevole è, nel suo complesso, il dialogo fra gli strumenti e la batteria.
Ancor più sperimentale è, per impostazione, la successiva "Green And Orange Night Park": malinconico, oserei dire funereo è in questo caso il tema d'apertura, prima che il brano si sintonizzi sull'ossessiva iterazione di due accordi di base, invitante spunto per i variegati interventi dei fiatisti: è Charig a salire in cattedra con la sua cornetta, eseguendo vorticosi fraseggi prevalentemente giocati su modulazioni dei toni acuti.
Nevrastenica (e molto zappiana) è l'improvvisazione collettiva di "Gridal Suite": rumorismo e bizzarre soluzioni sonore, fiati che "ragliano" inseguendosi sul precario ma costante sfondo di batteria e contrabbasso; si immagini la chiusura di "21st Century Schizoid Man" eseguita con strumentazione acustica e si avrà una significativa idea di come possa suonare questa insolita "suite". In "Five After Dawn" si rimane sulla stessa lunghezza d'onda, sembra d'aver di fronte la logica prosecuzione del pezzo precedente, solo nel contesto di un ulteriore inasprimento del suono e di una più netta destrutturazione delle regole compositive.
Brevissima la title-track, in realtà semplice intermezzo di 33 secondi, funzionale ad introdurre la conclusiva "Black Horse": è forse il brano più convenzionale (e di conseguenza più accessibile) del disco, e nel suo incedere latineggiante si intuiscono echi di Rhythm & Blues dei primi Santana, nonché una maggiore vicinanza a certi stilemi del Rock più classico: acido e passionale l'assolo elettrico del chitarrista Gary Boyle, già con la Trinity di Brian Auger e poi fondatore degli Isotope, ma anche Elton Dean non sfigura...
Cinque stelle storiche. Vertice assoluto nella carriera del grande Keith. Dunque, album imperdibile.
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