"Cos I'm a Muswell Hillbilly boy,
But my heart lies in old West Virginia,
Never seen New Orleans, Oklahoma, Tennessee,
Still I dream of the Black Hills that I ain't never seen."
Che simpatica canaglia, il signor Raymond Douglas Davies. Esistesse un premio alla faccia di bronzo in ambito rock, credo che gli spetterebbe di diritto. Nessuno come lui ha saputo in trent'anni e passa di onorata carriera prendere per i fondelli tutto e tutti, facendo incazzare via via produttori, colleghi, critici e pubblico, dall'alto di una spocchia senza ritegno e di un sarcasmo che avrebbe fatto invidia ad Oscar Wilde. E' stato il più rivoluzionario dei conservatori e il più conservatore dei rivoluzionari. Un Leo Longanesi del rock'n'roll che ha intinto la penna nel curaro per mettere alla berlina vizi e virtù della società in generale e dello show business in particolare. E' stato eccessivo, beffardo, insolente e snob, le ha cantate chiare ai beatniks, ai rivoluzionari da operetta del '68, e ai punks, tutti derisi dalla sua sghemba vis polemica. Egli stesso essendo, com'è ovvio, un ruffiano della più bell'acqua.
Prendete i versi del ritornello della canzone su in testa, il brano omonimo che chiude quel "Muswell Hillbillies" del 1971, il primo disco della fase-2 della carriera dei Kinks, ovvero l'esordio per la allora potentissima RCA. Qui si dichiara un amore sconfinato per l'America, per di più per quella più Tradizionale, tra l'altro, non certo per quella intellettuale newyorkese o peggio la assolata e modaiola West Coast. Ma questa dichiarazione proviene proprio dalla labbra di colui che fino a pochi mesi prima poteva essere considerato inglese fino al midollo, l'equivalente rock del tè delle cinque, delle fragole con panna e del cambio della Guardia davanti a Buckingham Palace. L'album in questione doveva essere il disco della consacrazione a stelle e strisce. Fu soltanto, a posteriori, l'ultimo grande album dei Kinks.
Ovviamente, il risultato fu distante anni luce da quello che la casa discografica si aspettava. Da poco scioltasi la premiata ditta Lennon-Mc Cartney, i manager RCA pensavano di aver fatto il colpo gobbo firmando quell'inglesaccio impertinente che doveva replicar loro a manetta hits azzanna-charts del calibro di "You really got me", "Victoria" e "Lola". Niente di tutto questo. Ray Davies se ne venne fuori, non so quanto inconsapevolmente, con un album che nulla concedeva al gusto facile né tantomeno alle classifiche. Disco che mixa sapientemente umori quieti e suono elettroacustico, capace di gettare il ponte ideale tra la Londra dei sobborghi - quella dove erano nati e cresciuti i fratellini Davies - e l'America rurale. Autentico, mi si passi l'azzardo del neologismo, "Blues-collar (pop)rock".
Già, nessun disco tra quelli usciti dalla penna di Mr. Raymond, nei testi come nelle musiche, respira un'aria così "working class", seppur ovviamente alla sua maniera, che non è certo quella di un John Lennon. E' il mood generale dell'album a conquistare. Mai tirato, ma i pezzi che "tirano" ci sono, eccome, vedi l'iniziale "20th Century Man", rock'n'roll asciutto e senza fronzoli che va dritto al bersaglio grosso e la quasi-hard "Here come the people in grey". In "Skin & Bone" come in "Complicated life" mai i Kinks erano stati così rhythm'n'blues. E la vena mancina pop-cabarettistica, quel marchio di fabbrica Made in England presente da "Something else..." fino ad "Arthur"? Tranquilli, assolvono alla bisogna la languorosa "Holiday", "Alcohol" e "Have a cuppa tea". Sul finire, la ballata-capolavoro che non può mai mancare da un autore di tale pasta: "Oklahoma U.S.A.", per il sottoscritto tra le migliori dieci canzoni di Ray Davies e tanto basti. E ancora, un outtake rollingstoniano con trionfo di slide e organo, "Uncle son". A chiudere il tutto lo svelto country-rock dall'omonimo titolo e dalle succitate liriche. I Green on Red e i Long Ryders nati nelle campagne inglesi una decina d'anni prima . Un suggello perfetto.
"I'm proud of that album (sta parlando di "Muswell Hillbillies", ndr). I think it's as good a record as the Kinks ever made". Quando parlava di sé e delle cose che lo riguardavano, Ray Davies è sempre stato serissimo...
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