Era da poco iniziato il 2006 quando gli svedesi Knife diedero alle stampe "Silent Shout", divenuto ormai un classico della scorsa decade. Quell'album, contenente perle del calibro di "Like a Pen", aveva consacrato definitivamente le due maschere veneziane come paladini della scena electro/synthpop svedese. Da più fronti arrivarono apprezzamenti circa l'operato dei due, nomine a vari Grammys, e, a seguire, diversi screzi/divertissement nel rapporto con i media. Il duo, che nel giro di 5 anni aveva prodotto ben tre album, ne ha aspettati ben 7 anni per dare a quel lavoro un degno successore. Si potrebbe obiettare che, in quest'arco di tempo, i due non siano rimasti affatto in disparte: c'è stato l'album a più mani del 2010, Karin ha pubblicato un ottimo lavoro solista a nome Fever Ray… Eppure è stato un piacere constatare che il progetto del duo svedese non sia stato accantonato. Il piacere è doppio considerando tanto la mole del materiale offerto, quanto la qualità stessa della pubblicazione.
Dover affrontare un'analisi che renda conto dell'universo aperto da quest'ultimo "Shaking the Habitual" è impresa a dir poco ardua.
Per cominciare si potrebbe partire, banalmente, da dove tutto è iniziato. "Shaking the Habitual", titolo di Foucaultiana memoria, vira verso temi propri del femminismo e si rivela molto critico riguardo la situazione politica degli ultimi anni (con un chiaro ammiccamento alla famiglia reale di Svezia). A confermarlo è la stessa Karin durante un'intervista rilasciata lo scorso aprile e disponibile sul loro canale youtube. In tutto ciò fa capolino anche una forte presa di posizione circa le recenti politiche applicate dall'industria musicale (serie di argomenti che troverebbero un forte riscontro in quanto fatto da Dj Sprinkles).
Aldilà dei temi scelti in questo nuovo lavoro, sono gli stessi arrangiamenti, le ritmiche, la scelta dei tempi a rendere difficilmente digeribile quest'ultima fatica. Se da un lato le tematiche possono sembrare legate ad un intellettualismo "a tutti i costi", dall'altro le composizioni stesse posso rasentare una voglia di sperimentare quasi spietata e noncurante dell'ascoltatore.
La volontà di proporre una musica di "protesta" che sia riadattabile ai nostri tempi, il desiderio di staccarsi dalle maschere sinistre che si andavano facendo istituzione e barriera, lo stimolo nella ricerca di strumenti tradizionali o self-made: tutto ciò è ravvisabile in filigrana nelle tredici tracce di quest'album.
Un lavoro che, sicuramente, richiede del tempo per essere assimilato. Si consideri che, mettendo da parte la complessità dei pezzi presenti, i tre Lp superano l'ora e mezza di ascolto provando anche gli ascoltatori più tenaci.
L'ouverture viene affidata a "A Tooth for an Eye" (usata come secondo singolo lo scorso Marzo): traccia che già nelle prime battute rivela l'interesse del duo per la world music e per le ritmiche tribali (presenti in quasi tutto il corso dell'album).
A dare maggior forza a questo primo apripista sono i nove minuti di "Full of Fire" che, a parere di scrive, è il vero apice di tutto il disco. Scelto come singolo di lancio, si presenta come un ponte ideale tra quanto gli Knife sono stati e quanto saranno. Le ritmiche martellanti, a tratti industrial, fanno da tappeto a una serie di suoni che condensano quanto verrà detto, in maniera più dilatata, nelle tracce a seguire: voci ultrafiltrate, uso di arpeggiatori su mallets acutissimi, bassi che si imbevono di bit reduction, effetti ping pong a tratti sbilenchi.
La gamma di trovate e sperimentazioni disseminate in questi 90 minuti è immensa.
In aggiunta, non va tralasciato l'uso di strumenti propri della tradizione, non solo europea, ma anche africana ed asiatica. Si provi a dare un ascolto ai fiati nipponici perfettamente integrati con le percussioni di "Without You my Life would be Boring". L'impressione è quella di esser catapultati direttamente sulle rive del Gange.
Tutto il disco procede con un alternarsi di paesaggi dilatati e sulfurei in contrasto con brani dalle ritmiche spezzate ed epilettiche ("Networking" su tutte), portando l'ascoltatore in stati di continuo disorientamento. La possibilità di ritrovare il synthpop dei lavori precedenti c'è, eccome se c'è, ma il tutto viene filtrato da una diversa consapevolezza ("Raging Lung", "Stay Out Here"). Sette anni passano per tutti.
Discorso a parte meritano i 20 minuti della traccia numero 7: "Old Dreams waiting to be realized". In questo caso il processo di sperimentazione viene estremizzato, i tempi vengono ulteriormente dilatati (si consideri che il pezzo da solo prende un'intera facciata del secondo vinile), l'aria rarefatta di pezzi quali "Fracking Fluid Injection" viene portata verso il proprio limite. Si crea una sorta di mastodontico pezzo ambient che non lascia trapelare un singolo raggio di luce, sfiorando momenti in cui si riesce a percepire il solo rumore di fondo dei macchinari. Piazzata nel bel mezzo del lavoro, questa traccia è il buco nero da cui tutto il materiale dell'opera viene estratto e nel quale ciclicamente riconfluisce.
Gli anni di attesa per un nuovo lavoro sulla lunga distanza hanno mostrato un duo capace di esprimere potenzialità rare nel panorama odierno. Purtroppo, con tutti i pro e contro annessi. Un gruppo che andrebbe osannato anche per le capacità compositive, ritrovando negli episodi più estremi il giusto corollario di una creatività eclettica. E non viceversa.
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