Nella capsula d'acciaio dentro cui hanno registrato questo disco il calendario è fermo ad uno dei primi mesi del 1980, i Chrome hanno da poco rilasciato Half Machine Lip Moves e Ian Curtis respira ancora. E parte del Rock è andata a nascondersi in un cono d'ombra sempre più nero - da dove le voci arrivano riverberate, le chitarre raccontano ossessione e il gelo marziale della drum machine comincia a soffocare il suono delle vecchie batterie. E il termometro è sceso inesorabile sotto lo zero.
Da laggiù Klaus Von Barrel e Kat Day sembrano dire che il loro 1980 è ancora in corso, ed è lontano dal concludersi. I colori non hanno scacciato via il buio. Qualcosa, sì, illumina la camera oscura in cui stanno suonando, dove l'Iggy Pop berlinese va ad incontrare gli OMD degli esordi. Quelli che intuirono che anche i Velvet Underground nascondevano un proprio lato robotico. Una luce si accende. Ma sono scintille d'elettricità tagliente, pesanti coltri di distorsore gettate su una base di minimalismo sintetico. Echi di rumore. Bassi che rimbombano opprimenti, come non si sentivano dai tempi degli Psychedelic Furs. Visioni oblunghe, dilatate dagli allucinogeni. Sogni a bassa fedeltà, da cui cresce l'ansia di non risvegliarsi più. E in mezzo al sogno prende forma, poco a poco, l'embrione di qualcosa che qualcuno chiamerà shoegaze.
Ma appunto, siamo ancora nel 1980.
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