Last Poets live @ Melkweg - Amsterdam, XX secolo

Pioveva, ma la cosa non stupisce se si considera che la città era Amsterdam e la stagione l'inverno. Già positivo che non nevicasse. Il dato meteorologico ha un suo peso; non mi era mai capitato di entrare al Melkweg e di avere freddo. Eppure, quella sera, era proprio così. Dentro ci siamo solo io, la ragazza del guardaroba e un tipo sdraiato per terra che ha tutta l'aria di essere un residuato della serata precedente. In maglietta entro nella sala piccola, quella del concerto e devo sfregarmi le braccia per combattere il congelamento e gli occhi per essere certo di non avere le traveggole. Sono solo.
Eppure che cazzo, i Last Poets. La settimana prima in Damrak la gente si picchiava per vedere gli Osdorp Posse, gruppo rap della periferia di Amsterdam contraddistinto da idee assai poco chiare in fatto di musica e di abbigliamento, ma che si deve fare?
Alla fine ad aspettare i Poets saremo in sei, mai vista una roba così; giriamo imbarazzati per la sala, intirizziti dal freddo, ciascuno con la sua cannetta e un sorrisino sconsolato sul volto. Suoneranno lo stesso? Gira voce che uno stia male, ma speriamo di sì. Dopo un po', arrivano. A occhio riconosco Umar Bin Hassan, rotondetto e con le classiche occhiaie, e Abiodun Oyewole, alto, atletico e giovanile. Insieme a loro un percussionista decisamente più giovane che non conosco. Jalal Nuriddin, altro membro originario, non c'è. Ha fondato un suo gruppo, i Last Poets (?!?) e tra i tre non corre buon sangue. Di sangue in genere, però, sembra che invece ne scorra. Umar esordisce scusandosi per la voce un po' arrochita, ma proprio Jalal gli ha tagliato la gola la settimana prima. Ci mostra la cicatrice ancora gonfia e arrossata. Perfetto. I sei in sala si dispongono sotto il palco, i tre sul palco non fanno una piega. Il percussionista inizia a bombardare le conga con tocchi rapidissimi, per oltre due ore un massacro sonoro.

Le voci dei due, più profonda e leggermente monotona quella di Abiodun, molto particolare e un po' stridula quella di Umar, si rincorrono sul tappeto di percussioni e colpiscono duro, allo stomaco. Cazzo. I pezzi li conoscete. "Niggers are scared of the revolution" va avanti per un tempo indefinito, sembra non finire mai, ma quando finisce, è ancora troppo poco, noi sei ne vogliamo ancora. "When the revolution comes" è raggelata dalla voce spezzata e ironica di Umar. non si riesce a staccare gli occhi dai tre, si resta in apnea fino alla fine. Gli altri pezzi sono un magma di sensazioni e di rabbia controllata e scandita. Nessun compromesso, voci e percussioni e testa e fegato, nient'altro.
Sono uscito dal Melkweg stanco morto, a pezzi.

Mi scuserete se non ricordo la data dal concerto (son quasi certo che fosse tra il 1970 e il 2000), né la scaletta dei pezzi, ma in quelle due ore ho avuto altro a cui pensare, bisogni primari.

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