"...e a quel punto ci rendemmo conto di DOVER fare qualcosa, prima di essere completamente dimenticati. Perché lo saremmo stati, ne eravamo sicuri. Tutto quello che avevamo fatto in tre anni era un EP, nulla di più. Provvidenzialmente, arrivò quest'etichetta francese (Lolita, si chiamava, e dipendeva dalla Eva Records) disposta a pubblicare del nostro materiale. Solo che di materiale nuovo non ce n'era. C'era però qualche rimanenza nel cassetto, roba vecchia di cui non andavamo sinceramente fieri, ma era tutto quello che avevamo. E allora ci dicemmo: ma si, mettiamo assieme il tutto. E quel progetto di dar nuovo lustro a registrazioni ormai morte, ammuffite, sembrava qualcosa di paradossale, era come provare a... dipingere un sorriso su un cadavere. E di qui venne il titolo".

Le parole di Joe Nolte dicono tutto, e non avrebbero potuto dirlo meglio: i Last nell'83 erano una band in totale disfacimento, che passava i suoi ultimi giorni di vita nel disinteresse di pressoché tutti gli addetti ai lavori. Lontani i tempi del primo 45, quello storico "She Don't Know Why I'm Here"/"Bombing Of London" che aveva fatto parlare di loro come dei pronipoti degli Standells e di gente come la Chocolate Watchband, in quel terreno fertile per il garage e il pop sessantiano che era stata l'area fra Los Angeles e San Diego. Lontano l'anno di "grazia" (si fa per dire) 1979, quello di "L.A. Explosion" e come dimenticarlo ancor oggi - anche se all'epoca lo dimenticarono quasi subito: di fatto, una meteora power-pop schiacciata sotto tonnellate di punk e new wave, una miscela (benché geniale) di beat, Byrds e surf che sembrava la cosa perfetta nel momento sbagliato. C'era bisogno ancora di qualche anno, perché nuovi suoni venissero dal Paisley e da quel recupero dei sixties in tutte le sue forme che fu quanto di meglio la California seppe offrire negli Ottanta: dal sound abrasivo e drogato dei Dream Syndicate all'idolatria McGuinniana (i Byrds, ancora loro) di genietti pop come i Long Ryders, passando per la psichedelia maestosa dei Rain Parade, l'Arizona trapiantata a L.A. dei Green On Red, il Mojave dei Thin White Rope e altre cose...non da poco, diciamo così. Ma quando uscirono allo scoperto i Last i tempi non erano ancora maturi, e a nulla valse la loro unicità - non certo ad evitar loro un pur dignitoso posto fra i grandi sottovalutati della storia del Rock.

Unicità, per l'appunto. Perché i Last furono unici. E meravigliosi. E lunatici, contraddittori, perennemente insoddisfatti di sé, perfezionisti fino al maniacale. Autolesionisti, anche. Perché se non fosse stato per la Lolita, Dio solo può immaginare che fine avrebbero fatto questi nastri - di fatto "Painting Smiles" non è un'antologia, è molto di più. E' l'enciclopedia della pop song secondo Joe Nolte e Vitus Mataré: un pop fra gli esemplari di Pop che più si siano avvicinati all'ideale di perfezione - se mai ne esiste uno. Un pop che aveva il nervosismo del punk e il Genio di chi sa comporre sequenze armoniche d'una bellezza disarmante. Il sound dei Last è un qualcosa da godere appieno, un affresco che lascia senza parole, a cui di volta in volta arrendersi. Con meraviglia ho dovuto riconoscere che questi pezzi mi prendono oggi ancor più di tanti anni fa: oggi infilo il disco nel lettore, e fin dalle prime note di "Wrong Turn" il piede non ne vuol sapere di star fermo.

Frequentissimi cambi d'accordo in successione, armonie vocali, rock'n'roll rivestito d'una patina fra il malinconico e l'amarognolo, a tratti anche lugubre, persino "gotico" nelle dovute proporzioni: chi conosce il trattamento qui riservato a "Louie Louie" sa che non sono in preda a delirio; passaggio obbligato per ogni garage-band che si rispetti, questa cover. Eppure suona diversa da qualsiasi altra "Louie Louie" mai ascoltata (pensate a quella targata fratelli Davies: il giorno e la notte...): loro la suonano in chiave minore con sfuriate di chitarra-killer e un impatto che dire bestiale è dire niente (l'urlo di Joe sul finale è qualcosa di spaventoso) e soprattutto quest'organo spettrale, diretto progenitore di quello di Chris Cacavas nei momenti di più acuto pessimismo. E che dire di "It Had To Be You", il flauto di Vitus ad aprire (che non t'aspetti) e quell'ineguagliabile melodia...? - una di quelle che il Boss di "Darkness On The Edge Of Town" e il Tom Petty di "Damn The Torpedoes" non avrebbero certo disprezzato, ma a cui non sarebbero mai arrivati neppure vivendo dieci vite. E ancora: il tumulto di "Lightning Strikes" e quel refrain martellante come deve essere, e i Byrds rivisitati e aggiornati di "Isn't Anybody There" ("non era male, ma avremmo potuto fare di meglio" - disse Joe Nolte in merito, e io mi chiedo se mai si possa fare di meglio...); Everybody Had It With You" e quelle tastiere ideali su arrangiamento che non richiedeva altra aggiunta, a tal punto tutto è al suo posto... Per ogni pezzo avrei parole di lode incondizionata, ma a nulla servirebbe se non ad allungare questa recensione e a darvi un'idea ancora pallida di ciò di cui i Last erano capaci. Per quello: ascolti, ascolti e ancora ascolti... fino a ubriacarsi.

Dopo lo scioglimento, episodiche rimpatriate per altro materiale di studio: ma il punto di partenza consigliato rimane questo.

Viceversa, per i nostalgici come me: son quei dischi che non hanno prezzo e nemmeno valore numerico in termini di giudizio.

Se non, appunto, il massimo che si possa dare: ed è un voto di riconoscenza, prima di tutto.

THE LAST WILL ALWAYS LAST.   

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