Ma la domanda che si chiedono un po’ tutti è: dov’era Juliana? Mica doveva esserci lei al basso, anziché quel simpatico ragazzo di Philadelphia, appassionato di “soccer” con cui peraltro è stato un piacere scambiare quattro calci al pallone, a fine concerto?
Evan c’era, almeno lui. Il principe dell’indie bostoniano era in forma, alla sua maniera ovviamente. Ossia sfattissimo, testa bassa, zero comunicazione col pubblico. Ovviamente tutto questo non ha alcuna importanza: c’è chi si esprime a parole, discorsi, gesti, sguardi etc…e chi invece semplicemente con le proprie canzoni. A ciascuno il suo linguaggio. Dando è così, come il concittadino Mascis e altri anti-eroi dell’american underground. Sono le sue melodie dal lontano sapore country-folk di parsons-iana memoria, arrangiate col muro di suono di Neil Young, a parlare per lui, a tradurre in musica ombre, amarezze, rimuginazioni, rassegnazione, ma anche qualche sprazzo di illusoria serenità. Quando ho conosciuto i Lemonheads, li trovavo un discreto compromesso fra Husker Du e Replacements, niente di più. Ma presto mi sono reso conto che Evan Dando è un songwriter della madonna, di straordinaria finezza ed ispirazione, e gliel’ho anche detto, dopo il concerto, mentre stava seduto sul suo furgonicino: “You’re one of the best indie-rockers in the business!” E’ il minimo che si può dire per uno che, solo fra l’87 e il ’90, avrà messo insieme almeno una ventina di brani memorabili, canzoni trascinanti ed empatiche che il 99% delle pop-star si sognano.
Quattro brani recenti in apertura di concerto, per un inizio un po’ freddo, un po’ in sordina, e poi l’album della gloria, “It’s A Shame About Ray”, dall’inizio alla fine. Senza la Hatfield, si diceva. Forse era solo una sparata promozionale o forse hanno scazzato prima del tour: non lo so e neanche mi interessa. So solo che una “Rudderless” senza controcanto femminile è un po’ meno bella. Stesso discorso per “Bit Part”. Nessun highlight, nessun picco e nessuna caduta nella performance del trio: tutto scorre col consueto tono pacato, ma non apatico, dove l’emozione è sempre trattenuta, mai urlata, ma onnipresente come un magone che non va più via. Quel senso di sfilacciamento e di abbandono che attraversa le corde (vocali e strumentali) dei Dinosaur Jr si ritrova in questo concerto, solo con più concisione. Per tutto il concerto, ho avuto l’impressione che, qualsiasi cosa suonasse, Dando fosse sempre capace di trasmettere quella complessa e combattuta gamma di stati d’animo che compone il suo universo poetico: è una musica “nuvolosa”, dove i raggi di sole compaiono di tanto in tanto a scaldare la giornata, prima che le nubi si addensino di nuovo, minacciando tempesta.
Nel finale di concerto, c’è spazio per un one-man show con il solo Dando sul palco, dove mi sarei aspettato almeno una “Postcard”, e invece non l’ha fatta. Fra i bis, con la sezione ritmica tornata sul palco, ho apprezzato “Stove”, anche se nell’irresistibile coda la chitarra si è un po’ incartata. Avevo preparato un listone di richieste, da “Sad Girl” a “Half The Time”, da “Circle Of One” a “Fed up” etc…ma sarebbe stato troppo bello. Strano che nessuno abbia reclamato a gran voce “Cazzo Di Ferro”, enigmatico “omaggio” del bostoniano al Belpaese.
Lo spettacolo è stato complessivamente soddisfacente, anche se i Meat Puppets un mese e mezzo fa erano stati molto più esaltanti e feroci. Ma credo che la singolarità di questi eventi risieda spesso in tutto ciò che sta al di fuori della musica, paradossalmente. Vedere Evan Dando avvicinarsi al nostro gruppetto per chiedere una sigaretta, ad esempio, è una cosa che può capitare solo in questo tipo di concerti. E’ piacevole notare che quell’abbattimento delle barriere fra pubblico e band, predicato e messo in atto dalle storiche band hardcore di inizio anni 80, stia dando ancora oggi i suoi frutti, permettendo ad una “star” del rock alternativo di fare comunella coi fan al termine dello show. Ed è singolare che il personaggio in questione sia stato un po’ il simbolo del riflusso dell’alternative verso il mainstream, nei primi anni 90, conseguenza del boom del grunge (e questa cosa ha compromesso l’immagine di Evan Dando, rendendolo antipatico e “poser” ai musicomani più intransigenti). Segno che il rock, al di fuori di radio e TV di regime, sta forse tornando in una nicchia felice, che non garantisce copertine sui rotocalchi e ingaggi milionari, ma che recupera la più sincera, umile ed orgogliosa vena do-it-yourself.
Dopo aver passato una mezzoretta buona a intonare canzoni dei Lemonheads, nel tipico tono "etilico" sospeso fra il tributo e lo sfottò, sperando che Dando (seduto sulla panca al tavolo dopo il nostro) ci ascoltasse e si esibisse in un fuori-programma (ma evidentemente non era in condizione), Spaccamascella mi chiede: “E se andassimo a fare due tiri a pallone col bassista?” “Buona idea” rispondo. Succede anche questo, in una serata indie-rock…
Carico i commenti... con calma