Dimenticate per un attimo le sfortunate vicissitudini dei componenti della band, cercate di non pensare subito a Kate Moss che si fa una striscia o a Pete Doherty che affoga in una vasca piena di stupefacenti, cercate di ascoltare questo disco come si dovrebbe, cioè come un'opera d'arte quale sicuramente è. Il luogo ideale secondo me è in mezzo al traffico cittadino, alla fine di una giornata di lavoro, col volume dell'autoradio altissimo, la gente sul marciapiede che si gira e vi guarda con quell'espressione da capra strafatta, la faccia dell'italiano-tipo alle otto di sera. E voi siete lì, in macchina, con l'autoradio rubata e camuffata che spara "Up The Bracket", l'epitaffio inaudito, non voluto, di un gruppo di giovani talenti figli di puttana.

Mentre scivola via il primo pezzo, "Vertigo", vi state rollando una sigaretta ed un tizio, sul marciapiede, vi manda a cagare perchè il volume è troppo alto e sembra che siate voi a suonare, nell'abitacolo della vostra auto di quarta mano, battendo le mani a tempo, senza nemmeno capire come mai. Let it go. Arriva "Death On The Stairs", o come cazzo si chiama. C'è quell'intro scazzata con la chitarrina, poi la voce malaticcia di Pete, il tutto comunica allegria ma allo stesso tempo è triste, ma solo voi sapete perchè. Perchè questo gruppo non esiste più, perchè come diceva il buon De Andrè "come tutte le più belle cose, vivesti solo un giorno come le rose". Ecco il significato di "Death on the stairs" ascoltato nel 2006, ma non finisce qui... con "Horror Show" cominciate a battere le manine sul volante, la coda è sempre più lunga e ti stappi una birra, tenendola in mezzo alle gambe e stando attento che gli sbirri non ti notino, poi quasi sopraggiunge la noia ma arriva la schitarrata di "Time For Heroes", con un testo che fa venire i brividi, e cazzo... pensi a quando i "riot" li facevi tu. Dura il tempo di 3 minuti, non sei manco arrivato al semaforo, ti rolli una sigaretta, un'altra, inizia "Boys In The Band", con quel ritmo un po OI, il ritornello assassino, scorgi l'insegna rossa del motel all'orizzonte del cavalcavia, si illumina e si spegne, questo gruppo non esiste più porca troia, io nemmeno esisto più di tanto, ora come ora. Mi viene da cantare esattamente come cantavano quei due figli di buonadonna, Carl e Pete, supportati da un basso ed una batteria coi contro-contro cazzi, aggiungo una terza ubriachissima voce al coro di "Boys In The Band", dura troppo poco ma son sempre imbottigliato nel traffico con una bottiglia di birra in mezzo alle gambe. Beh "Radio America" lo sanno tutti, si salta.

Arriva l'urlo malconcio che annunzia la title-track, e la "vertigo" dei Libertines ormai ha finito di accalappiarvi con la sua spontaneità, il sound univoco e la voce ubriaca di Pete che ti fa capire che ormai ti trovi in un altro mondo, purtroppo un mondo fatto di eccitanti che costano troppo e ti rovinano subito. Metti che ti fai una sniffatina nel frattempo, e son passati appena dieci minuti dall'inizio del CD. Beh, c'è "Tell the king". Occorre ascoltarla più volte per carpirne la seducente bellezza, la delicatezza e la disperazione. Mandatela indietro almeno dieci volte mentre quello dietro strombazza, mentre la vostra tipa continua a far squillare il cellulare perchè state tardando ad arrivare a casa, opure il vostro capo vi richiama per dirvi che domani dovrete andare in ufficio due ore prima per annaffiargli le palle. "Tell him you know how I feel... "

Beh, l'album è finito, ci sono ancora un paio di pezzi che vi accompagneranno durante il parcheggio, tra cui "The good old days" che oggi suona più che mai come il testamento di questo splendido, unico gruppo. A tutti i loro detrattori, fate uno sforzo, non negatevi questa esperienza. Provate "Up The Bracket" senza pregiudizi, poichè come le migliori droghe va assunta senza preconcetti e senza paure. Sono anni che la assumo tutti i giorni e devo dire che riesco ancora a stare sulle mie gambe. Mi era capitato solo con con il primo album dei Velvet Underground, ed ormai non sono più un giovinotto.

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