"Ragazzi, siete consapevoli che quello che fate uccide la musica?"
"Sì, e se la musica deve morire noi vogliamo essere il plotone d'esecuzione"
Così rispondeva Justin Pearson, frontman dei Locust, alla domanda di una giornalista, immediatamente dopo aver concluso un concerto live. Era il 2003: il quartetto di San Diego aveva appena concluso un anno pregno di soddisfazioni, fra le quali la pubblicazione di quel capolavoro chiamato "Plague Soundscapes", un gigantesco frullatore di caustico noise, elettronica dissonante e sparate in bilico fra il grindcore e l'hardcore, il tutto equamente distribuito in ventitrè piccole tracce, per un totale di ventuno minuti. La scena indipendente, così restia ad accogliere le loro opere (dall'esordio datato 1998, alle decine di piccoli EP, sino allo split realizzato con le Melt Banana), aveva improvvisamente cambiato opinione su di loro, innamorandosi di ogni componente che caratterizzava le loro brevi - ed intense - sfuriate, dall'incrocio delle due voci (Justin Pearson e Bobby Bray) al doppio pedale, sempre in movimento, di Gabe Serbian, ai testi anticonformisti, antidemocratici e tutti gli anti- possibili (dopotutto la loro stessa etichetta si chiama Anti!).
Ma intanto il tempo è passato. Le loro tute verdi da locuste, forse, si sono sgualcite, a causa dell'uso: di certo, nulla di irreparabile. Quello che, al contrario, si è rovinato, col passare degli anni, è il mondo, per colpa di una politica screanzata ed insensata. Forse, quello, non è esattamente irreparabile.
Ed i Locust sono cresciuti. Sono diventati più maturi. Si sono, per la prima volta, pienamente accorti della realtà che li circonda, che è precipitata paurosamente verso un livello di mediocrità tale da essere etichettata come "preoccupante". Hanno acquisito una nuova capacità analitica, meno chiassosa ed esibizionista, molto più feroce e cinica, gelida e distaccata. Si sono seduti attorno ad un tavolo, per riflettere. Hanno toccato con la propria mano quello che davvero significa il "male di vivere". Ed hanno quindi accumulato, in cinque anni di percorso, un'enorme quantità di velenoso rancore, da sputare contro tutto e tutti, metabolizzando con rabbia tutte le debolezze e gli errori della classe politica dirigente.
Eccoci dunque, dopo un lustro di attesa, a questo nuovo "New Erections". Che ci consegna subito una certezza: i Locust non hanno perso il sarcasmo. Almeno nell'assegnazione dei titoli (come non ricordarsi quel meraviglioso "Identity Exchange Program Rectum Return Policy", contenuto in "Plague Soundscapes"?). Quanto al resto, il disco è, in tutto e per tutto... diverso. I Locust non si sono riciclati, non si sono accomodati sugli allori, accontentandosi della fama acquisita. Hanno invece esplorato nuove strade, esaminato il rapporto spazio/tempo, sperimentato diverse soluzioni, acquistato una padronanza strumentale davvero fuori dal comune. E finalmente, possiamo dirlo: se in "Plague Soundscapes" la musica era sotto il tiro di un minaccioso plotone d'esecuzione, in "New Erections" la carcassa della stessa è già stata data in pasto a quelle escrescenze che si snodano, paraplegiche, nell'artwork.
Ci sono certamente moltissimi aspetti che differenziano questi Locust dai Locust di cinque anni fa. Si tratterà di spazzcore - termine che tanto piace ai critici puristi - ma, sicuramente, non è la stessa musica (o, meglio, lo stesso rumore) che abbiamo avvertito nell'album precedente. Anzitutto, il numero dei brani: non sono più samples tragicomici che raramente sforavano il minuto di durata, bensì vere e proprie composizioni, ben composte e strutturate, potenti, precise e, soprattutto, molto più lunghe. Si passa dunque da ventitrè a undici tracce (!) e, cosa incredibile, senza avvertire il benchè minimo sforzo, o la percezione di un terribile vuoto sistematico. Non è certo finita qui: anche l'aspetto musicale è mutato in modo profondo. Il noise squilibrato degli esordi è stato affiancato - o sostituito, in alcuni casi - con un cybergrind di cattiveria inaudita, che per certi versi rimanda a gruppi come Cephalic Carnage, Genghis Tron e Agoraphobic Nosebleed. Ma qua e là affiorano anche sprazzi di generi che, fino ad adesso, erano completamente estranei alle attitudini dei californiani, come l'ambient e il progressive. Senza dimenticare l'elettronica, molto più presente che in passato, abusata a tal punto da distorcere completamente ogni possibile suono.
E così passiamo dai magmatici controtempi del grindcore di "AOTKPTA", capace di mantenersi vivace sia nelle accelerazioni che nelle incursioni techno, all'inconfondibile, corrosivo, velocissimo punk di "We Have Received An Official Verdict: Nobody Gives A Shit" (ecco riaffiorare l'umorismo delle locuste!), fino allo straniante, martellante botta e risposta di "One Manometer Away From Mutually Assured Relocation", una sorta di tiro al bersaglio, azzardato ed impreciso. Non si dimenticano certo gli episodi più similari a quelle che erano state le radici acustiche della band: la mazzata, efferata e contundente, di "Hot Tubs Full Of Brand New Fuel", o ancora la danzereccia "God Wants Us All To Work In Factories" (grandi Locust!), sostenuta quasi interamente dalla tecnica bravura di Gabe Serbian, sempre più veloce ed incisivo nei suoi drumming.
Ma sono i pezzi meno "scontati" - anche se non si può parlare di prevedibilità, con i Nostri - a focalizzare maggiormanete l'attenzione. Ed ecco che i californiani ci regalano delle vere e proprie perle, come "The Unwilling... Led By The Unqualified... Doing The Unnecessary... For...", sinuoso brano da quasi quattro minuti che si muove, agile, fra atmosfere dark ed insospettabili mid-tempi progressive, o l'interminabile hardcore di "Book Of Bot" (quattro minuti e trentuno, pensate un po'!), posseduto da un'anima androide che ne fa rimbombare lo scheletro con un ronzio elettronico che poco o niente ha di terrestre. Il vero e proprio capolavoro si deve comunque ricercare in "Scavenger, Invader", agghiacciante ed alienante sibilo, fastidiosissimo e pruriginoso, che si alterna, in un climax di invasività, con un sottofondo di urla sconnesse dal timbro rivoltoso. Fino a sfociare in un silenzio innaturale.
Il coraggio di cambiare strada, di provare a stupire, uniti alla grande rabbia serbata in petto per cinque, lunghissimi anni, rende di fatto questo "New Erections" il capolavoro, per quanto controverso, dei Locust. Bisognerà comunque vedere se i fan conquistati da "Plague Soundscapes" sapranno reagire positivamente a questo repentino cambio di direzione, da parte dei californiani. Questo non è certamente un album per tutti e, se il precedente vi era sembrato assurdo, preparatevi ad un vero e proprio pugno nello stomaco: questa volta, i Locust non passano oltre, ma affondano i propri proiettili senza pietà.
Saprete tenergli testa?
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