"Ma in tutta questa vicenda i jazzisti che ruolo ebbero? O meglio, come il mondo del jazz reagì a "The Sound of Music" e nel dettaglio a "My Favorite Things"? Il mondo del jazz non reagì. Gioco d'anticipo.". Da questo punto in avanti, nel saggio dedicato a "My Favorite Things" e contenuto nel suo libro "Storie Poco Standard - Le avventure di 12 grandi canzoni tra Broadway e jazz", il musicologo Luca Bragalini comincerà a passare in rassegna svariate versioni di questa fortunata canzone prestata al jazz ed estrapolata appunto dal musical "The Sound of Music" di Rodgers & Hemmerstein, conosciuto cinematograficamente con il titolo di "Tutti Insieme Appassionatamente". La storia dell'incontro tra "My Favorite Things" ed il jazz è affascinante e particolare, e comincia a prendere forma nell'arco di poche settimana nell'autunno del 1959: con il passaggio "il mondo del jazz non reagì. Giocò d'anticipo", l'autore sottolinea come la canzone, curiosamente e al contrario rispetto alla prassi corrente, cominciava ad essere registrata nel circuito jazzistico ancor prima che il musical facesse il suo debutto, ed anche un grande vecchio come Benny Goodman con fiuto fulmineo non mancò all'appuntamento: "probabilmente gli editori avevano licenziato la musica a stampa ancora prima del debutto, certi che le opere della ditta R&H avrebbero venduto anche senza il volano di uno show in cartellone a Broadway", conclude il paragrafo. Esattamente ad un anno da questo febbrile stato delle cose, John Coltrane e la sua versione segneranno il punto di non ritorno, sparigliando le carte e decretando il tutti a casa. Molti anni sarebbero passati ancora, prima di arrivare al 1979 che è l'anno di "Variety is the Spice" Louis Heyes, disco che avrà proprio in "My Favorite Things" il suo punto di forza. Nel frattempo molte altre versioni si sarebbero avvicendate nei venti anni successivi (di buona fattura quella di Dave Brubeck del 1965) nonostante il confronto - a volte anche involontariamente impietoso - che sarebbe nato con l'archetipo coltraneiano. Louis Hayes, che fu proprio al servizio di Coltrane in qualche occasione alla fine degli anni '50, caratterizzerà la sua versione (che Bragalini però non cita nel suo saggio) con la continuata "frusta" ritmica del suo drumming (un Art Blakey più esasperato), aspetto agli antipodi rispetto alla "nobiltà" in punta di valzer dell'Elvin Jones di Coltrane. D'altro canto, Harold Mabern, che con il suo pianoforte sarà il perfetto contraltare, ne esalterà il lato sfacciatamente libertario, lontano dalla "rigidità" spirituale di Coltrane, e quasi naif della parte melodico/armonico. Ma il disco è tutta una superba passerella di colori: da un'accattivante "Little Sunflower", famosa hit di Freddie Hubbard e qui cantata in un trionfo esotico tra samba e bossa nova da Leon Thomas (voi che magari non lo conoscete ma siete cresciuti a pane e Demetrio Stratos, ci siamo capiti no?), ed in questo caso sarà il flauto di Frank Strozier a fare da contraltare, passando ad altri classici come "Invitation" o "Stardust" (sempre con il piglio che contraddistingue per intero l'album e lo fa "identificare"), dai quali emerge tutto il talento sottovalutato dello stesso Strozier alle prese stavolta con il sax alto. Un disco perso nella discografia da solista di un buon side-man, in un anno che nella storia è fuori tempo massimo, né carne né pesce, ma è proprio in questi aspetti reconditi che si deve andare a cercare se ci si vuole imbattere in gradevoli sorprese.
Carico i commenti... con calma