Bebop.
Progressive rock.
Free-jazz.
Cool-jazz.
Arty-jazz.
New wave.
Post-punk...
Da venticinque anni si cerca di affibbiare un genere a questo gruppo, ovviamente con scarso successo.
I Lizards hanno sempre dribblato con classe ogni etichetta. In tutti i sensi, visto che questo disco è autoprodotto.
Nell'81 la band dei fratelli Lurie (John è noto ai cinefili per le collaborazioni con Jarmusch, Lynch e Benigni) irrompe sulla scena di New York col suo primo omonimo album, e subito si scatena - indovinate un po' - l'indignazione degli immancabili puristi. E via con "questo è fake-jazz", e "il volume è troppo alto", e "sono troppo volgari", e non gliene va bene una. Ma Johnny sa il fatto suo, va avanti per una strada che gli si srotola davanti mano a mano che cammina. Collabora con grandi musicisti (Tom Waits su tutti, e non dimentichiamo Arto Lindsay che era nella lineup del primo disco dei Lizards), e nel 1989 sforna l'"album della maturità". Ed è un album per cui vale il detto "l'appetito vien mangiando". Al primo assaggio il peperoncino pizzica un po' sulla lingua. Il retrogusto non è male però... In fondo ti piace quel sapore piccante e deciso. Ti fai un'altra forchettata... E va a finire che ne fai indigestione.
La prima traccia, Bob The Bob (meglio ancora la reprise, la n. 8 Bob The Bob Home), è inaugurata dal sassofono vellutato di John. Un riff pigro e notturno, spalleggiato da un arpeggio galleggiante della sapiente chitarra di Marc Ribot; poi s'inseriscono i tom ovattati della batteria di Douglas Browne, e gli intelligenti fill-in di piano di Evan Lurie vanno a completare alla perfezione il riff iniziale del fratello, che intanto ha cominciato a variare, per poi chiudere di nuovo come aveva cominciato.
La prima cosa che salta all'orecchio è la naturalezza e la sicurezza con cui i membri della band interagiscono tra di loro. Questo affiatamento che si riesce a creare è il vero fulcro di tutte le formazioni capitanate da Lurie.
"Non è solo merito dell'abilità musicale", dice John, "è più un fatto di personalità, spirito, energia, di come ci si lega [...] è come se la band attuale avesse sempre suonato insieme [...] lavoriamo duramente su questa intricata faccenda, e suoniamo quasi come se fosse un rito religioso. Emaniamo questa... cosa. E' quasi come un culto": un modo per spiegare che questo affiatamento, o comunque lo si voglia chiamare, è una componente necessaria, in un gruppo come in qualsiasi squadra. E' come se aumentasse del 100% le capacità di ogni singolo. Tutte le band di talento che hanno costruito la loro musica intorno a questa componente hanno fatto grandi cose, penso soprattutto ai Led Zeppelin, o agli Allman Brothers di Duane.
Torniamo al disco. La seconda, la title-track, è la mia preferita. Comincia con un tempo sincopato che ricorda il prog-jazz-rock dei Weather Report, scandito dagli accordi bassi di piano. E qui, signore e signori, sale in cattedra Ribot. Il purosangue inglese della seicorde. Un ispirato assolo dei suoi lo presenta: "salve mi chiamo Marc, sono uno dei più geniali figlidiputtana che abbia mai imbracciato una chitarra". Lo stile è poliedrico, cacofonico, inconfondibile. E' uno di quelli (insieme a Hendrix, alla slide guitar di Duane Allman e a pochi altri benedetti da Dio), che li riconosci dopo la terza nota. Gli assolo brevi e sintetici sono la sua specialità, tu dagli 5 secondi e lui in 5 secondi ti regala qualcosa di giusto, di finito. Senza fronzoli, senza mai strafare. Se non fosse stato per la sua presenza in quest'album avrei recensito il primo (che obiettivamente è meglio di questo).
Le canzoni comunque sono tutte costruite in maniera impeccabile. La terza traccia, "One big yes", è un altro prog-jazz dal ritmo sostenuto, seguito da "The hanging", un lento swing da 3 del mattino inframezzato dal classico sax "nevrotico" di John; e siamo già alla quinta traccia, "Uncle Jerry": si apre con un riff sincopato di basso, poi arriva il solito ruscello di note di Lurie, nel quale confluiscono gli altri strumenti, e a metà canzone è già diventato un fiume. Le bacchette di Browne sambeggiano sul ferro del tom, i djembè di E. J. Rodriguez sono il cacio sui maccheroni.
La seguente è "A paper bag and the sun", decisamente la più sperimentale, quella che fa esitare a definirli "jazz".
A confermare questo dubbio la numero sette, "Tarantella". La traccia che non t'aspetti. Un ibrido tra Tom Waits, una canzone di Broadway e la colonna sonora de "Il piccolo diavolo".
La otto è appunto la reprise della prima, solo un po' più acida. La nove è un delirio hard-bop, "Sharks".
E per ultimo che cosa ci avranno riservato?
"Travel", che comincia con il piano solo di Evan e muta in un malinconico e cinematografico tango jazz. oh yeah.
Niente da dire, un album diretto, equilibrato, ispirato. Tanto di cappello a John Lurie.
Stelle: 4+/5
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