Dopo aver treneggiato la brina di un nebbioso milanese per più di otto ore, spiaccicato su una transenna di un locale et buio et adombratu et con una maglietta marziana nello zaino, vedo un capellone stretchingarsi dietro alla quinta di un palco degno di ospitare, con qualche affanno, la famosa cinquecento elefantina.

Un occhialuto àpeiron neriforme imbocca rimbalzando sul suo grasso, si va ad accovacciare dietro alla sua tastiera; nel suo halo strascicantoscuro passeggia il bassista, presenza anonima ma in sé raptureggiante; il batterista, potenziale ratto da carcere d'isolamento (uno tutto per lui...) si siede con una canotta sgualcita (che non siede accanto a lui per buona norma d'educazione) sul suo sgabello, scazzato almeno quanto la sua canotta (non lo sgabello, persona posata...). Il trio Omar-Blixer-OcchialiDiOmar fa il suo ingresso nel palco: (cazzo, ce li ho a neanche un metro, gli occhiali... sono una cosa terrificante, spessi come il fondo una bottiglia, ma una bottiglia di quelle parecchio bottiglie)... Omar ha delle spalle? No.

I miei occhi di miope intravedono un'Ibanez, come non continuare a guardarla estasiato quando incominciano ad effluirne quei fiotti fiatosi di petali fluttuosamente fetali? Retaggiano il lamento sospirato e incessante di Blixer, fusionabilità psichaedeliante di tastiere, effetti, bassi chitarre e batteria, ogni canzone è un salto in una nuova atarassia vorticante: le dilatano tirandole per i capelli, trascinandole fra nuovi battesimi di tormenti acquatici... Icasticismo Freudiano-Metafisico.

Reimbullonano l'elaborato spidocchioso-comatorio, velandolo di strascichi eclettici e iridandolo di lunghi panneggi bistrattati: un virtuoso volteggio fra Volte Felliniane e anatomiche scalate fra Scale di Escher e sudore che zampilla sul suono...

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