Un titolo curioso per il debutto in LP di una delle band più bizzarre partorite dalla new-wave britannica di fine anni 70: d'altra parte, gente che, pigliando per il culo niente meno che gli intoccabili Clash, cantava "Never Been In A Riot" (in un'epoca in cui le piazze del Regno Unito erano quotidianamente invase da manifestanti di ogni colore), non sapeva proprio che farsene degli slogan; e allora una frase come "The Quality Of Mercy Is Not Strnen", pronunciata da un gruppo che pure non si tirava affatto indietro quando si trattava di denunciare gli scompensi generati dai meccanismi socio-politici che indirizzano la vita delle persone, non suona certo come una rinuncia all'attivismo e una conseguente immersione nel disimpegno, bensì come la scelta consapevole di adottare un approccio caustico e stravagante, mirato a sensibilizzare le coscienze delle persone senza ricorrere a formule tanto inflazionate da non sortire più alcun effetto.
Sei musicisti abilissimi a mascherare classe, gusto ed inventiva dietro ad un post-punk dagli equilibri precari, che riparte dall'imprescindibile lezione minimalista degli Wire, dalle danze caracollanti dei Fall e dal funk-punk dissestato dei Gang Of Four (ai quali, per l'occasione, hanno fregato gli strumenti). Due cantanti addirittura, non particolarmente dotati, ma perfetti nel loro ruolo (Andy Carrigan e Mark White), due chitarristi perennemente fuori sincrono (Kevin Lycett e Tom Greenhalgh) e una sezione ritmica sapiente nell'imbastire i tempi più grotteschi (al basso Ross Allen e alla batteria Jon Langford, generoso e intraprendente leader di questa scalcinata "gang of six").
Lo spirito del 77 sopravvive in episodi come "What", neo-mod che a forza di handclapping, trasporto e melodie strappate, batte i Jam sul loro stesso terreno, "What Are We Going To Do Tonight", con un call'n'response talmente scoordinato che potrebbe quasi stare sul primo disco dei Circle Jerks e "Dan Dare", sulla scia dei Clash, ma con un piglio più divertito. Per il resto, siamo dalle parti di una new-wave genuina, esemplare nell'evocare con pochi ed umili mezzi stati d'animo tra i più disparati: l'indolenza di "Trevira Trousers", briosa come il più grigio dei pomeriggi, con le lancette dell'orologio che paiono andare al rallentatore; l'esatto contrario di "Join Us In The Countryside", progressione ansiogena che si schianta rovinosamente in un finale dilaniato. Poi c'è il disgusto che miracolosamente si trasforma in elegia nella camaleontica "Watch The Film", ammirevole reportage di una serata etilica al pub, tra sfoghi ed euforia collettiva. Il momento più tenero del disco è "Rossane", con quei tempi fratturati, quella voce non priva di una certa malizia e soprattutto quell'impressionante lavorio delle chitarre, che si presentano prima impercettibili, poi veementi, per lanciarsi successivamente in percorsi dettati dall'istinto e sciogliersi infine in dolci scordature. Contesa tra soffusa rassegnazione e impulso di sopravvivenza, tanto accorata quanto cadenzata, è invece "After 6", altra pregevole ballad che raccoglie gli umori controversi di quella e di ogni altra epoca, mentre "Lonely And Wet" tenta la carta del dramma fatalista, ma siccome Andy Carrigan non è né Patti Smith né Tom Verlaine, ci si accontenta stavolta dell'aurea mediocritas. Non importa, perché a dare la statura espressiva di questo piccolo classico del rock sotterraneo britannico è "Beetroot", vale a dire: i Television sequestrati dalla loro polverosa dimora newyorkese e sballottati di colpo in un baraccio di provincia. Poesia ed epica del quotidiano, senza ombra di quell'intellettualismo sovente rimporverato agli artisti new-wave.
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