Ci sono persone che creano sogni senza neanche rendersene conto, che fanno musica solo per raccontarsi, che hanno la fortuna di essere nati in luoghi dove arrivano poche notizie e poche pubblicità, in luoghi dove essere introversi è quasi una normalità e dove l’amicizia diventa ancora di più un legame inscindibile.
Phil Elvrum è uno di questi ragazzi,e proprio grazie a tutto ciò, riesce ancora a cullare come solo poche altre persone riescono a farlo. Phil ha fatto parte di diversi progetti, è stato tra gli altri il batterista degli Old Time Relijun nel seminale “Uterus and Fire” (Olympia, il luogo di nascita del gruppo di Arrington De Dyoniso e Aron Hartman è molto vicino alla città natale del nostro, Anarcotes); ha fatto il fonico per l’album seguente “Witchcraft Rebellion", fa parte del progetto pop D+ assieme al chitarrista dei Beat Happening Bret Lunsford ed ha suonato con molta della scena “Roots” di Olympia, ma  è con la sua creatura personale, Microphones (praticamente lui a cui ruotano attorno moltissimi amici e cari, anche non musicisti!) che si è fatto notare, se non dal vero e proprio esordio“Don’t Wake Me Up” del 1999 o dai seguenti album “It Was Hot, We Stayed In The Water” e “Windows” (tutti e due del 2000, quest’ultimo autoprodotto) che già comunque contenevano i tratti tipici del suo suono, ossia il lo-fi e le possenti cavalcate di batteria, indubbiamente da questo “The Glow, Pt.2” vero e proprio monumentale (nel senso di durata, venti canzoni per settanta minuti) capolavoro da cameretta.

Appunto di Lo-fi parlavo, sia per la dimensione sbilenca delle splendide canzoni, che per l’artigianalità del suono; un suono acustico sia per le timbriche che per gli strumenti,quasi rumoristico(ma mai caotico) che conferisce all’opera il potere della semplicità e della immediatezza.
Basterebbero i primi due pezzi, ”I Want Wind To Blow“ ed “The Glow, Pt.2” per gridare al miracolo (come appunto quasi tutte le riviste e webzine hanno fatto), dove si passa da dolci temi acustici a code barrettiane, da imponenti muri di batteria a soavi e solenni melodie per organi, dove non è la novità a stupire ma la pura bellezza e semplicità. Dal folk di "Headless Horseman" alla krauta "The Moon", dal valzer di "Map" al blues di "The Gleam, Pt.2"  fino alla distorta "I Want To Be Cold", tutto resta in piedi benissimo senza un minimo tentennamento, gli strumenti dialogano in maniera diretta e non troppo cervellotica in quadretti che regalano un’atmosfera intima da cui e difficile distaccarsi.

Ecco, intimo è il termine giusto per definire "The Glow, Pt.2",che ci permette di scoprire cosa un semplice ragazzo può creare solo grazie alle sue idee.
L’erede di Barret (pace all’anima), ma senza pazzia…

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