C’era una volta il sunshine pop, ma nessuno lo sapeva. Nessun gruppo sapeva di rappresentarlo.
L’appellativo è posticcio. Un’etichetta, tutto qui. I Beach Boys dell’epopea “Smile”. I Mamas and Papas. Ma anche i The Millennium, con “Begin”, il loro unico lavoro.
Le coordinate: Los Angeles, California, 1968. Estate, è ovvietà. Il sole splende.
Il produttore Gary Usher era un tipo all’avanguardia. Probabilmente, nulla da invidiare a Brian Wilson. Né da spartire coi suoi fantasmi. Usher e l’amico songwriter Curt Boettcher allestiscono un team, assoldando Joey Stec, Dough Rhodes, Lee Mallory, Ron Edgar, Michael Fennelly e Sandy Salisbury. Un super gruppo per il progetto “del millennio”. Un non gruppo per realizzare la musica che hanno in mente.
Architettano un concept fondendo surf rock, arrangiamenti barocchi, psichedelia contenuta, ballate vaporose e afflato folky.
“Begin” vanta melodie amabili, lepide, calde. Orecchiabili sì, ma soavi e avvolgenti. Gli arrangiamenti sono complessi. Il pop è pop sofisticato. In sede di produzione, Usher collabora con l’altrettanto arguto Keith Olsen (un amante della classica). I due acquisiscono due registratori da otto piste, li unificano, incidono gli strumenti, le voci, amalgamano i vari strati, armonizzano, sincronizzano... Producono un sound diafano, angelico, cristallino. E struggente. Un sound trascendentale. Remoto, imperfettibile, irriproducibile dal vivo.
A riascoltarlo, oggi, “Begin” è senza tempo.
Mi fa venire in mente i Fleet Foxes. Meno, molto meno malinconico. Un po’ meno bucolico, forse. Meno country, più corale. Medesimo l’incanto. Quello dei Millennium è solo un po’ più artefatto. Entrambe le formazioni colgono la levatura di quella bellezza che si staglia tra la voce, il vento e le nuvole. Un po’ “shelleyana”.
Poi, per pura illazione, mi sovviene il film “Forgotten Silver” di Peter Jackson e Costa Botes. Un film documentario su un presunto pioniere del cinema, un tale Colin McKenzie, neozelandese. Un personaggio fittizio (il film era infatti celebrativo dei 100 anni del cinema e ciò che sembrava un documentario è in realtà una commedia). Ebbene l’analogia dov’è? Nel fittizio di una cosa inventata e molto bella. Il suono disegna mondi lontani, un’armonia edenica, dove tutto è ancora slancio ed incanto insieme.
Ma l’argento di quell’età aurea è andato perso nella caligine, nella dimenticanza, come spesso succede.
Non se li filò quasi nessuno, perché erano lontani dalle protest song e dal folk intimista. Troppo discosti dall’espansione lisergica dilagante. Troppo commerciali per essere trasmessi dalle modulazioni di frequenze delle stazioni alternative. Troppo psichedelici e troppo poco caramellosi per la modulazione d’ampiezza delle radio nazionali. Le terre di mezzo non piacciono. Solo ad Aristotele nell’etica nicomachea.
Eppure “Begin”, oggi, assurge lo status di classico, avendo a lungo ignorato d’esserlo.
Innovativo, sfuggente, accenna ma non indulge nella psichedelia, la pratica con moderazione. Persegue la qualità sonora, lo splendore della melodia.
Influenzati da Beatles, Byrds, Beach Boys, Mamas and Papas, 5th Dimension, Harry Nillson, The Left Banke. Sembra il Merseybeat degli Hollies lanciato su nuvole montanti coi barocchismi dei Love deprivati della chitarra incendiaria di Arthur Lee. E, di rincalzo, procaci coretti femminili.
Troppo ambizioso, troppo elaborato? Lo vedo tanto complesso quanto etereo. Mite, intrigante. Un ibrido fuori portata, fuori controllo. Naturalmente fu un grande insuccesso commerciale, unito, inoltre, ad una spesa esosa di gestazione.
Tra le canzoni: “To Claudia on Thursday”, una pop song elegante, elegiaca, con una ritmica esotica. “Some Sunny Day” dispensa tastiere estatiche che creano un tappeto sonoro su cui aleggiano chitarre e voci febbricitanti, impastandosi affabilmente. Poi ci sono le linee vocali melliflue e trasognanti di “I’m With you”, la bucolica “There’ Is Nothing More to Say” e la straniante “Karmic Dream Sequence #1”. Infine, “I Just Want To Be Your Friend”, davvero bellissima, ti cattura con la sua plasticità avvolgente e una melodia seduttrice.
Meravigliosa lo è anche la copertina, in bianco e nero. Le cornici di una vetrata chiusa inquadrano un albero da frutta, un giardino, due uccelli che planano, una nuvola, un villaggio in lontananza, con casupole e campanile. Tutto rassicurante. Alieno l’intreccio tra le linee della finestra e l’uccellino in evidenza. A rigore non è dentro casa, né fuori. Il particolare ci sfugge. E noi dove siamo realmente?
Le distanze e gli intrecci sono il tema dell’album. Cosa ci separa dai veri affetti? Dagli altri? Da noi stessi? La melodia ci accompagna lì, dove dobbiamo andare. Senza fugare i nostri dubbi. Amorosi e no. Esistenziali e no. In qualche giornata di sole. O da Claudia, il giovedì.
In definitiva: un classico sommerso.
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