Due simili facce da nerds non campeggiavano sulla copertina di un disco dai tempi di «Crazy Rhythms» dei Feelies.
Le facce sono quelle di Lucas Fitzsimons e Ryan Foster, in arte The Molochs, da Los Angeles.
È che dovevano rinnovare il profilo Facebook, allora hanno chiesto non si sa bene a chi di scattare qualche foto: quella venuta meglio l’hanno scelta come front-cover del loro secondo disco, quelle venute un po’ peggio sono finite sul retro e sulla pagina Facebook.
Il disco l’hanno intitolato «America’s Velvet Glory» e fatto uscire a gennaio 2017, dopo un esordio datato 2013, «Forgetter Blues», passato del tutto sotto silenzio.
Sarebbe un gran peccato se questo fosse destinato alla medesima sorte, perché le facce saranno pure quelle di irrecuperabili nerds – secchioni che con le pupe proprio non ci sanno fare – ma la musica che fuoriesce dai solchi merita assai.
Musica derivativa al 100%, doveroso premetterlo per far risparmiare tempo prezioso a chi sia alla ricerca della next big thing, hype, coolness ed amenità di tal fatta: la roba più cool che troverete in questi paraggi è il video virato seppia di «You and Me», non foss’altro per la deliziosa protagonista, impossibile non innamorarsene e desiderare di essere il fortunato che imbraccia la Super 8.
Poi, quel brano profuma di imberbi Rolling Stones intenti ai primi vagiti beat, proprio come «No More Cryin’», che in scaletta arriva subito prima, ma anche gli episodi più movimentati – le iniziali «Ten Thousand» e «No Control», per certi versi «The One I Love».
Il resto ondeggia tra un po’ di folk psichedelico – «Charlie’s Lips», «That’s the Trouble with You» e «Little Stars» – e un po’ di rock – «New York» – tra un po’ di Byrds e un po’ di Modern Lovers, il tutto sempre impreziosito con un gentile tocco garage, che proviene da distanze siderali rispetto ai brutali stilemi di genere.
11 brani per mezz’ora di musica, tutto talmente lineare e prevedibile che questo potrebbe pure risultare uno dei dischi dell’anno, per quelli che la svolta modernista degli Allah-Las di «Calico Review» proprio non l’ho digerita.
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