"Shut up, don't cry"

I Monks, con il loro unico album "Black Monk Time" furono un gruppo geniale quanto sconosciuto. Siamo nel 1966, anno in cui vedono la luce i primi grandi album della musica rock: Dylan con "Blonde on Blonde", Zappa con "Freak Out", gli Stones con "Afthermath", i Beach Boys con "Pet Sound" sono solo alcuni dischi del catalogo dell'anno in questione.

Ma dai Byrds ai Beatles, da Donovan ai Kinks si ha la netta sensazione che lo standard medio della musica sia in netta crescita.

In tale contesto, lo sconosciuto complesso dei Monks rilascia il suo unico album: "Black Monk Time".

I Monks sono formati da cinque militari statunitensi di stanza in Germania (Francoforte), e già dal 1964 si fecero le ossa sunando e reinterpretando il classico repertorio del Rock and Roll degli anni '50.

Ensamble particolarmente curioso, i Monks si componevano di Gary Burger (chitarra e voce), Eddie Shaw (basso e voce), Dave Day (banjo elettrificato e voce), Roger Johnston (batteria e voce), Larry Clark (organo elettrico e voce).

Mentre la maggior parte degli autori dell'epoca parlavano di guerra come semplici osservatori e giudici lontani, i cinque "monaci" vissero sulla loro pelle quelle esperienze, che indelebilmente si sarebbero poi trasmesse nella loro arte.

Lontani dalle filosofie Dylaniane, dagli scenari romantici di Beatles (di cui si dichiararono rivali) e Beach Boys, dal teppismo di strada degli Stones o dallo sberleffo Freak di Zappa, i Monks rappresentano, se si può dire un gruppo esistenziale, cinico, verista, lontano da ogni posa intellettuale, di qualunque forma essa fosse.

E allora ecco perchè il loro suono è grezzo, duro, caotico, violento, come nessuno prima di loro era riuscito a fare. La guerra, la violenza, la morte, la disperazione, eruttano semplicemente dai solchi, dove la musica è accompagnata da un lirismo semplice ma di rara efficacia.

Oltre alla curiosa presenza di un banjo elettrificato alla ritmica, i Monks si distinsero in ognuno degli strumenti adoperati. L'organo di Clark, spesso dominante, sembrava essere in mano ad un Jerry Lee Lewis impazzito, mentre la chitarra di Burger si nota per un uso costante e forse per la prima volta razionale del Feedback. Batteria e basso (elettrificato) costituivano una ritmica inesorabile, devastante e destabilizzante.

Più in generale i Monks furono il primo gruppo ad usare il rumore, la cacofonia, il caos, in maniera cosciente, funzionale alla musica e al significato che essi volevano dargli.

La loro idea di musica era semplice e geniale allo stesso tempo: preso un tema dominante, lo si brutalizzava con bordate di feedback o di organo dissonante, mentre basso e batteria seguivano un percorso destabilizzante e straniante. Il punto di partenza era il Rock and Roll, ma in poco tempo questo si trasformava in un baccanale assordante.

Così non sorprende che il disco, aperto dalla "Title Track", metta in scena un tappeto di basso (distorto) e batteria al fulmicotone devastato da una mitragliata d'organo di Clark. La guerra in Vietnam è il tema centrale, lo si nota subito, sia nei testi che nella schizzofrenia del canto e della musica.

Neanche il tempo di capire cosa sia successo, ed ecco il primo grande capolavoro del disco: "Shut Up" è un pezzo di una brutalità unica. Tutti gli strumenti suonano all'unisono per sostenere un organo che detta la "melodia" (se così si può definire). Ipotetico dialogo fra il soldato impaurito e il comando militare, che ordina di stare zitti e non piangere ("Shut Up" appunto), riesce nel miracolo di mettere in scena tutta la follia della guerra, tramite il canto amaro e sprezzante, vertigini di organo e chitarre impazzite. Si prosegue con il Rock and Roll supersonico e spassosissimo di "Boys are boys and girl are choise" seguito dal lento rotolare nel caos di Feedback ed organo di "Higgle Dy, Piggle Dy".

L'arte dei Monks culmina forse in "I Hate You", dove basso e batteria creano una danza adatta all'inferno, calda e ubriaca come la contorta dichiarazione d'amore di questa canzone: "Ti odio ma chiamami". Organo e chitarra non si fanno pregare per dar vita alla lava e allo zolfo che popolano questa danza infernale.

Il disco prosegue sempre ad alto livello, sperimentando in forme diverse sempre lo stesso canovaccio: devastare le melodie col caos e il rumore. Da segnalare "Complication", il lancio spaziale di "Blast off" e la spassosissima "Drunken Maria".

Classificati spesso proto punk o garage rock, i Monks non possono rientrare in nessuna di queste classificazione tanta e l'unicità del suono e dell'idea alle fondamenta della loro arte. Profeti (o monaci, fate voi) del caos e dello stupro della canzone, i Monks proposero intuizioni che mai prima si erano udite e che avrebbero caratterizzato la musica rock per decenni.

A riascoltarlo oggi suona ancora freschissimo e stupefacente, e non è difficile pensare che effetto potesse sortire agli ascoltatori del 1966.

Secondo chi scrive, uno dei grandi capolavori dimenticati della musica rock.

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