Quando comprai questo album, due anni fa, conoscevo i Moody Blues per il loro brano più famoso, parlo chiaramente di “Nights In White Satin” . Il disco lo comprai, comunque, perché da poco avevo scoperto la musica progressiva, attraverso Pink Floyd e compagnia bella; un genere che mi ha sempre affascinato per la tendenza a creare album concettuali, come veri e propri libri che parlano di temi diversi, più o meno seri, e che mettono in evidenza lo stato d’animo e le idee dell’artista in un determinato momento della sua carriera. Questo, lo so, avviene anche in molti altri artisti non progressive, ma è solo in questo genere che un tema, come in questo caso lo scorrere della giornata, è davvero il centro portante dell’opera, anche a livello tecnico – musicale.
C’era una volta a Londra nel 1967 una casa discografica, la Decca Records, che per fini essenzialmente pubblicitari propose al complesso capitanato da John Lodge e Justin Hayward un ambizioso e praticamente impossibile progetto: produrre una versione rock della “sinfonia del nuovo mondo” di Antonin Dvoràk. Il complesso accettò, rendendosi conto in seguito che si trattava di un’immane stronzata. I ragazzi, rinunciando alla folle idea, continuarono però a lavorare sui loro progetti originali, senza disdegnare però un aiutino dalla già “disponibile” London Festival Orchestra. Risultato finale? Un bel repertorio di sette canzoni pop – progressive immerse in una matrice di musica sinfonica. Bella schifezza, dovevano aver pensato i discografici. Lo scetticismo permase fino alla sua uscita, nel 1967, quando il disco conobbe un grande successo.
Come ho già detto, il “concept” si basa sullo scorrere della giornata: i titoli vanno dall’alba di “The Day Begins: Morning Glory” al tramonto di “Nights in White Satin”. Le canzoni hanno tutte una introduzione e una conclusione sinfonica, che allunga e spezza i brani, sia tra di loro che al loro interno. E’ quasi impossibile sentire il cambiamento di traccia da un brano all’altro; ed è anche difficile in alcuni casi associare ad un brano un solo tema musicale.
Dall’introduzione classica e lirica della prima parte (“The day begins” e “Dawn is a feeling” ) si passa alla parte forse più “molle” del disco, cioè in sostanza il mattino e il mezzogiorno, in cui davvero i brani, un po’ troppo scanzonati, entrano in forte contrasto con l’orchestra. Ma superata questa debolezza si arriva ai 3 brani migliori, nel pomeriggio e nella sera. “Afternoon” è notevole. In essa convivono 2 temi, egualmente straordinari: si passa dalla prima “Forever afternoon”, con un sound decisamente vivace, alle note altissime di “Peak Hour”, in cui prevale invece la malinconia e la sensazione di dover partire, di lasciare la sicurezza del giorno avvicinandosi sempre più all’ignoto della sera.
“Evening” è ancora meglio. L’introduzione, lasciata agli archi, precede un sound di basso e batteria molto potente, di ispirazione orientale – indiano, immancabilmente psichedelico e ipnotico. Un altro intermezzo sinfonico lascia spazio a un tema ancora più pesante, in modo che ci si ritrova nuovamente storditi, prima della “distensione” finale.
“Nights in White Satin” la conoscono praticamente tutti. La voce candida di Hayward canta
Nights in white satin,
Never reaching the end,
Letters I’ve written,
Never meaning to send.
Beauty Id always missed
With these eyes before,
Just what the truth is
I cant say anymore.
mentre il suono del sintetizzatore l’accompagna con suoni e voci da brividi, come dei fantasmi del passato. La canzone parla di un amore perduto, i cui unici resti sono un tessuto bianco, simbolo di innocenza e semplicità, di una bellezza ormai svanita.
A mio parere le canzoni potevano resistere nella loro bellezza anche senza la componente sinfonica, che fa apparire il tutto un po’ artificioso e ingombrante. Ciò nonostante, il disco può rappresentare una piacevole scoperta per chiunque si voglia avvicinare al genere progressivo e a quel rock sinfonico che conobbe grande successo negli anni successivi.
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