Quando, fra pochi giorni, sarà nuovamente il 20 luglio, telegiornali, quotidiani, internet, tutti i mezzi di informazione dedicheranno almeno qualche riga al ricordo di una sera d'estate del 1969 che tenne inchiodati al televisore qualcosa come un miliardo di persone nel mondo. L'uomo metteva piede sulla Luna al culmine di un'impresa nata proprio nel segno zodiacale dedicato all'astro più vicino a noi, scatenando una frenesia per lo spazio senza paragoni, né prima, né dopo. Nella solita Romagna un paio di genitori fanatici decidevano di chiamare LEM il proprio figliolo, il modulo lunare e i suoi occupanti venivano fotografati e pubblicati ovunque, anche sui francobolli emessi nei Paesi del blocco comunista, negli abiti e negli arredamenti impazzava lo stile spaziale. In una notte sembrava essere scomparso per sempre il confine fra scienza e fantascienza e probabilmente un po' tutti sognarono di potersi concedere un viaggetto interplanetario.

Io, che di questa mania ho potuto ancora assaporare le ultime manifestazioni (ai tempi dei primissimi voli dello Shuttle), spesso mi sono chiesto cosa avessero provato ad esempio i miei genitori quella notte. Certo, un'idea possono darla i filmati dell'epoca, la copertina del Messaggero con la parola "Luna" scritta a caratteri giganteschi, certi brani di band come Hawkwind e Tangerine Dream. Poi ho scoperto "To Our Children's Children's Children" dei Moody Blues, album che si presenta con uno dei titoli più brutti di cui abbia memoria.

Si tratta di un lavoro che, a registrazione già avviata, i Moodies decisero di dedicare in toto al "passo gigante per l'umanità", introducendovi uno spirito da "space age" talmente sincero da suonare spesso più significativo di qualsiasi altra testimonianza d'epoca. Basterebbe un ascolto a "Floating" per cogliere lo stupore della band di fronte alle nuove frontiere che si erano aperte con l'allunaggio; un brano semplice come una filastrocca al quale una produzione particolarmente illuminata dà un senso profondamente cosmico senza cascare nei luoghi comuni legati a questo attributo: niente fischi di sintetizzatori, niente phaser e lungaggini psichedeliche, ma un suono secco e scarno di batteria, un tappeto di campanellini (una celeste, probabilmente) sapientemente riverberati, chitarre in glissando come sottofondo. Ray Thomas, flautista del gruppo, declama un testo volutamente puerile nelle sue immagini di persone impegnate in "salti da sessanta piedi", che ricorda alcuni passaggi dai racconti della "Storia Futura" di Hinlein. Ecco come un brano racconta qualcosa che nessuno normalmente ti dice di quella sera: quel miliardo di persone, probabilmente, come prima cosa tornò bambina, con negli occhi lo stupore delle cose nuove, cosa che ci racconta anche la pacata ballata da figli dei fiori "Eyes of a Child".

Lo spazio è però anche il campo di imprese epiche, di velocità sbalorditive, della sensazione di libertà dai limiti della gravità e dai confini dell'uomo. Sensazioni che ci vengono fatte abilmente provare in "Beyond", strumentale epico ed incalzante giocato sul bellissimo uso del mellotron da parte di Michael Pinder e su una dinamicissima sezione ritmica, e "Gypsy", probabilmente il brano più rock dell'album (e uno dei pochi successivamente riproposti dal vivo), dove la figura del nomade viene lanciata nel sistema solare e oltre sull'ennesimo riff da antologia di Justin Hayward. O, ancor più, in "Out and In", brano dove mellotron e chitarra si intrecciano con una linea vocale pacata, quasi accennata, fino a suggerirci serafiche immagini di satelliti in orbita o voli extraveicolari.

Ma un'impresa come la conquista della Luna deve aver sicuramente suscitato anche profonde domande esistenziali: è questo solo un primo passo? Cos'è l'uomo davanti all'inimmaginabile immensità dello spazio? "Candle of Life" introduce nell'album, così, una notra malinconica, nel descrivere quel qualcosa che "ci dice che sei solo nelle mani del tempo", e ce lo comunica con le note di un brano in chiave minore, con un tema di mellotron tanto inconfondibile che potrebbe fare concorrenza a quello di "Night in White Satin". Una nota che trova il suo compimento migliiore nel brano che chiude l'album "Watching and Waiting", in lista per essere definita il brano più bello mai scritto dalla band. La voce appassionata di Hayward descrive la solitudine dell'uomo nello spazio senza, però, le angosce della coeva "Space Oddity" di Bowie, puntando piuttosto sul senso d'attesa, sulla pazienza di chi aspetta l'avvento di un amico. Ancora una volta il mellotron sembra voler dilatare le atmosfere fino a spingerle al di fuori dello spazio e del tempo, rendendo questa traccia davvero qualcosa di eterno e struggente.

Gli occhi ormai pieni di immagini che vanno ben oltre la sottile atmosfera terrestre, fatico a ritornare con la mente ai giorni nostri. Mi piacerebbe ritrovare quell'entusiasmo tanto semplice e tanto genuino che i Moody Blues mi hanno comunicato, e mi scontro con una realtà nella quale difficilmente si guarda verso il cielo con l'intimo desiderio di poterlo un giorno esplorare, e l'impresa di quel lontano 20 luglio 1969, se non addirittura bollata come inutile, è buona solo per alimentare le vane chiacchiere dei teorici della cospirazione, divisi fra chi nega che l'uomo abbia mai messo piede sul nostro satellite e chi insiste che invece i soliti Americani ci nascondano qualcosa di più. "To Our Children's Children's Children" mi rimane come una consolazione: l'occasione di poter rivivere per circa quaranta minuti quello spirito che, tanti anni fa, aveva fatto sentire l'uomo protagonista del proprio universo.

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