Il titolo del secondo album dei Morning Benders: “Big Echo”, non poteva rendere meglio le aspettative ricevute dalla critica all’uscita, benedizione pitchforkiana compresa. Dopo il timido esordio dated 2008, la band californiana non si è più fermata, suonando con gruppi quali Yo La Tengo, MGMT, Grand Archives, Yeasayer, The Rosebuds, We Are Scientists, Au Revoir Simone e andando in tour con gentaglia come The Kooks, Death Cab for Cutie, Ra Ra Riot e Grizzly Bear.
Proprio da questi ultimi e dal loro corposo rock sperimentale sembrano aver tratto maggior ispirazione, il fatto che quest’album sia co-prodotto insieme al bassista degli orsetti Chris Taylor enfatizza direte voi quest’aspetto. Questa next big thing sparge ad ampio raggio le carte per accattivare il pubblico: diffuse diafonie, melodie agrodolci e atmosfere dreamy. Tuttavia la scrittura di alcuni brani è acerba e in generale si nota una mancanza di personalità che tende ad offuscare il potenziale della band.
Brani come “Pleasure Sighs” e “Mason Jar” promettono bene ma si perdono per strada, lasciando incompiuti dei buoni spunti melodici. In episodi come “Hand me Downs” e la chiusura “Stitches” – “Sleeping In” aleggia fin troppo pallido lo spettro cavernoso degli Walkmen.

E’ l’apertura del disco a regalarci sprazzi d’ottima musica: la tenera “Excuses”, in cui viene reso il giusto merito al timbro puerile del cantante Christopher Chu, l’arroganza del basso di “Promises”, canzone che viaggia tra surf, soul e psych-rock accompagnata da un testo calzante. Interessante anche la funambolesca “Cold War (Nice Clean Fight)” con le sue chitarre stridule.
Non tutto ciò che brilla è stato lavato con mister-brillio insomma e l’hype intorno a questa band si dimostra in gran parte ingiustificato.

Buone idee non mancano, da maturare e sviluppare, che se non altro fanno ben sperare in chiave futuro. Speriamo che il prossimo non sia nuovamente uno sfuggente echo.

Carico i commenti...  con calma