Se spesso capita che band dedite a death metal, o comunque a generi appartenenti alla sfera dell'estremo, con il tempo decidano di ammorbidire i suoni ed abbracciare sonorità dark, assai meno spesso ci è capitato di assistere al processo inverso.
E' il caso di Carl McCoy, indimenticato leader dei leggendari Fields of the Nephilim, il quale decide di rinverdire la propria proposta tirando su un nuovo progetto, i Nefilim per l'appunto (viva la fantasia!), e sfornando un album di virulento thrash-death di matrice industriale. Non scevro, of course, da quelle contaminazioni dark/gothic che da sempre caratterizzano la sua musica. La continuità con la band madre è del resto evidente fin dal nome del progetto, e così questo "Zoon", passato inosservato nel 1996, riesce a coniugare violenza slayeriana e rock goticheggiante. Finendo però per deludere sia i fan della prima ora che quelli che si era pensato di conquistare con il lancio di questa "nuova" formula.
Personalmente parlando, questo "Zoon" non mi dispiace affatto: se è indubbio che con esso non si scriva una pagina indelebile della storia della musica estrema, c'è da dire che rappresenta un tentativo piuttosto originale di rilanciare il talento di McCoy. Talento che, dopo aver brillato in capolavori come "The Nephilim" e "Elizium", sembrava con gli anni destinato ad appassire e svanire fatalmente nel nulla. Classe e carisma, quindi, non mancano in questo "Zoon", forte di una nuova formazione e di una energia e di una freschezza ritrovate. E laddove i Fields mi appaiono dannatamente troppo tamarri per gli ambienti dark (a mio parere una spanna sotto ai vari Sisters of Mercy e Christian Death), devo ammettere che la veste metal dona decisamente bene agli eccessi e alle tragiche visioni dello storico singer.
"Zoon", anzitutto, affascina perché è un concept: un concept fantascientifico in cui, mi sembra di capire, si sviluppa una turbolenta storia d'amore. A fare da sfondo: uno fosco scenario da "1984". E non a caso le peripezie del protagonista puzzano proprio di disperata "fuga dalla lobotomia", soluzione estrema di una società disumanizzata, dominata da un sistema di coercizione e manipolazione che lascia veramente ben poco spazio agli impeti vitali e libertari di uomini capillarmente controllati ed eterodiretti. Musicalmente parlando, il tutto si concretizza con un claustrofobico metallo "post-moderno" sporcato da invereconde intromissioni industriali. A stupire è però la voce di McCoy, effettata dall'inizio alla fine, che sfodera un growl (!!!) di tutto rispetto, e che difficilmente ci saremmo aspettati da una vecchia gloria del dark ottantiano come lui (un growl che, a ben vedere, non nasce da allenamento, bensì dalla raucedine di una gola marcia, devastata da alcool, sigarette ed eccessi di ogni tipo).
Paul Miles, Cian Houchin e Simon Rippin, rispettivamente alla chitarra, al basso e alla batteria, allestiscono un muro di suoni davvero notevole, per certi aspetti accostabile ai Fear Factory dell'epoca, anche se l'attitudine industriale non deve trarre in inganno: campionamenti ed effetti non sono che l'involucro esteriore, la scorza marcia e grondante ossessioni di un'opera che volge il proprio sguardo essenzialmente al passato. Thrash metal e rock decadente sono infatti gli assi fondamentali su cui si muove l'album, e proprio fra questi due poli oscillano le tracce, violente ma sempre illuminate da un marcato spirito melodico e riscaldate da un'emotività difficilmente riscontrabile in un album di puro e duro thrash metal. Si pensi per esempio alla miracolosa convivenza di una bellissima "Shine", epica ballata in tipico Fields of the Nephilim style, in cui la voce di McCoy torna finalmente pulita (si fa per dire!), con l'accoppiata "Venus" e "Pazuzu", che vanno a rappresentare invece la fase più violenta dell'album: pezzi che più o meno spudoratamente pescano dal repertorio degli Slayer (la prima, di fatto, saccheggia un riff di "Angel of Death", mentre la seconda si fa bella con il riff portante di "Post Mortem", altro classico tratto dal seminale "Reign in Blood").
L'ultimo scorcio dell'album si stempera in toni cupi ed introspettivi, i quali vanno evidentemente ad assecondare l'anima gotica e visionaria di McCoy. Le tre parti della mastodontica title-track, attraversate da gelide sinth e campionamenti in sottofondo, delineano un coinvolgente climax di pathos ed emozioni, in cui un versatile McCoy dà il meglio di sè, prima di trarsi definitivamente da parte e cedere ai riflettori gli umori inquietanti della conclusiva "Coma": desolante catarsi rumoristica, che ha il sapore di un elettro-shock. Si compie quindi la sconfitta dell'"umanità nell'uomo", schiacciata spietatamente dal volere del Sistema, incatenata ad una sedia di metallo e lobotomizzata.
"Zoon", in definitiva, è un lavoro che pur marciando sui binari della tradizione, finisce paradossalmente per suonare fresco ed originale, proprio per la capacità dei musicisti di sposare due mondi così distanti e per certi versi inconciliabili: un putrido gioiello che con questa recensione intendo far emergere nuovamente dal fango del tempo e per voi lustrare, lucidare, affinché la sua luce nera illumini le menti di una generazione di ascoltatori forse più aperta mentalmente di quella che nel '96 lo accolse con una tiepida indifferenza.
Carico i commenti... con calma